· Città del Vaticano ·

Una rilettura de «La maschera della Morte Rossa» di Poe

Nello specchio di Edgar

Una scena del film «The Mask of the Red Death» di Roger Corman.jpg
27 marzo 2020

Nel 1842 un giovane scrittore americano fu pagato dodici dollari per un suo racconto pubblicato sul «Graham’s Magazine», un periodico a larga diffusione edito a Filadelfia. Quello scrittore era Edgar Allan Poe e il racconto si intitolava The Mask of the Red Death. A Fantasy. Da allora, La maschera della morte rossa è diventato uno dei più noti e apprezzati racconti di terrore della letteratura di tutti i tempi. Tradotto nelle maggiori lingue del mondo e reinterpretato dalla cultura popolare, ha conosciuto forma radiofonica, teatrale, cinematografica fino a essere particolarmente corteggiato dai disegnatori di fumetti, che ne hanno prodotto a tutt’oggi circa trenta edizioni ufficiali dal Sud America all’Europa, all’Asia con i suoi manga.

L’elemento carnascialesco, colorato e barocco, è chiaramente uno dei motivi del grande fascino che il racconto ha esercitato su generazioni di artisti oltre che di lettori. Questo elemento si sposa perfettamente, caricandolo di mistero e di inquietudine, al tema centrale del racconto: una terribile epidemia mortale che decima la popolazione di un fantomatico principato.

L’incipit del racconto è folgorante: «La Morte Rossa aveva da tempo devastato il paese. Nessuna pestilenza era mai stata così fatale o così terribile. Il sangue era il suo avatar e il suo marchio: il colore rosso e l’orrore del sangue». Gli effetti, in questa visionaria descrizione, sembrano anticipare più l’Ebola che non il covid-19, poiché, spiega Poe, «c’erano dolori acuti, e improvvise vertigini e poi abbondantissimo sanguinamento dai pori, fino alla totale disintegrazione». Ma in tempi di epidemia virale non è esercizio inane cercare specchio alle nostre ansie e alle nostre tragedie nella letteratura.

Pochi scrittori ottocenteschi sono stati capaci come Poe di fornire a noi lettori del terzo millennio un tale specchio, ancorché distorto dalla sua fervida fantasia. È stato lui a inventare il racconto poliziesco, la detective story, con le elucubrazioni di Auguste Dupin nei Delitti della Rue Morgue. Ed è stato tra i primi a trasformare il gotico in un genere veramente psicologico, i cui fantasmi non sono pallidi ectoplasmi che si dissolvono con la luce del sole, bensì personificazioni dei tormenti interiori dei personaggi.

Il gotico iniziato da Horace Walpole con Il castello di Otranto e ripreso da tanta letteratura tedesca del diciottesimo e primo diciannovesimo secolo è lontano anni luce da Poe. I suoi detrattori (ne ebbe tantissimi, in vita) lo accusavano di sfruttare la popolarità di questo genere, ma lo scrittore rispondeva che il suo terrore non era della Germania, era dell’anima. Il primo, quindi, a darci una geografia delle ansie della modernità, amato infatti visceralmente dal modernismo sudamericano, dai simbolisti francesi, e sopra tutti da Jorge Luis Borges, che in buona parte della sua produzione ha instaurato un virtuale dialogo con lo scrittore nordamericano. Dupin, per esempio, è modello intellettuale del protagonista di uno dei racconti più noti del bardo argentino, La muerte y la brùjula, La morte e la bussola, del 1942, che con un po’ di immaginazione potremmo pensare come un regalo per il centennale di alcune pubblicazioni di Poe. Se per molti estimatori Poe era stato il poeta malinconico segnato da un tragico destino, è proprio Borges a riconoscerlo quale grande maestro del racconto, affabulatore di statura mondiale.

Tra i tanti elementi di modernità di Poe c’è l’idea dell’effetto. Un secolo prima che gli accademici teorizzassero le strutture della narrativa, aveva capito che per assicurare l’effetto voluto lo scrittore doveva mantenere l’attenzione del lettore in una singola seduta, senza interruzioni. Da qui la sua predilezione per il racconto breve, spesso aperto da una brevissima citazione, il cosiddetto exergum, che a sua volta rimandava ad altri testi, insolita premonizione del concetto attuale del link. L’effetto brevità si rivela efficacissimo ne La maschera della morte rossa, con un inizio in medias res e subito dopo la presentazione del principe Prospero, «felice e spavaldo», che nel momento in cui capisce che la popolazione del proprio regno è stata dimezzata, invita mille cortigiani a chiudersi con lui nel suo castello. Danze e bagordi sono assicurati per tutti i prescelti, mentre fuori imperversa la morte rossa sulla gente comune, che il principe abbandona a sé stessa.

Curioso di fatti di cronaca (era l’epoca in cui in America si diffuse al massimo la penny press, i quotidiani da un penny in formato tabloid ricchi di notizie) Poe conosceva sia il passato lontano — le epidemie europee di peste — sia quello a lui più vicino. Dopo aver perso i parenti più stretti per la tisi, Poe aveva avuto diretta esperienza di una epidemia di colera a Baltimora pochi anni prima, mentre aveva ovviamente avuto notizia della febbre gialla esplosa proprio a Filadelfia nel 1793 (raccontata da un suo predecessore, l’oggi pressoché dimenticato romanziere Charles Brockden Brown). Ciò che rende unico il suo racconto è quel senso di castigo morale che il rapido evolversi degli eventi infligge all’egoista principe, che gli appassionati di cinema ricorderanno nelle sembianze di Vincent Price, ancor più cinico e perverso dell’originale, nell’omonimo film di Roger Corman. Mentre tutti i cortigiani ammazzano il tempo festeggiando con le maschere più fantasiose (ma un pesante orologio di bronzo forse minaccia che sarà il tempo ad ammazzare loro) entra nel castello uno sconosciuto con la maschera della Morte Rossa. L’indignazione è totale, e ad essa si accompagna ben presto la paura di tutti gli astanti, perché troppo ardito e irrispettoso appare quel travestimento al cospetto di coloro che quella immagine hanno deciso di chiudere fuori dal castello.

Non appena il principe muore, trafitto dal suo stesso pugnale nel confronto con la Maschera, gli altri si avventano su di essa per scoprire che sotto... non c’è nessuno. «Fu così che una folla variopinta (...) inorridita scoprì che le funebri bende e la maschera cadaverica (...) erano deserte di qualsiasi forma tangibile».

di Alessandro Clericuzio