Il 26 marzo di quarant’anni fa moriva il critico e semiologo francese Roland Barthes

L’intellettuale è sempre altrove

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25 marzo 2020

Il culto, quasi l’ossessione, per il segno, per il seme da cui fruttifica la parola, e la venerazione per la parola stessa che si fa pietra d’angolo della costruzione narrativa, poteva inguainare Roland Barthes in una veste accademica polverosa e stantia. Il rischio, dunque, era quello di svolgere una funzione culturale ripiegata su stessa e, in definitiva, dal deficitario potere comunicativo. Quel culto, il saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese — di cui il 26 marzo ricorrono i quarant’anni della morte — l’ha saputo invece trasformare in uno strumento divulgativo per eccellenza, sfrondandolo di apparati e ornamenti retorici, così da favorire con originalità un fecondo rapporto tra sapere e società, tra professore e discente.

Formatosi prevalentemente sullo studio dei classici greci, latini e francesi, Barthes — che verrà definito «l’intellettuale caleidoscopico» — andò maturando sin da giovane (si era laureato in lettere classiche alla Sorbona) una concezione della scrittura come un organismo neutro, a sé stante, che acquisisce senso non solo in relazione ai significati. Eloquente, al riguardo, è il titolo dell’opera che lo fece conoscere all’élite culturale dell’epoca, Il grado zero della scrittura (1952). In questo saggio uno dei maggiori esponenti della critica francese di orientamento strutturalista si concentra sul valore della scrittura la quale assume, a suo modo di vedere, un’identità separata e indipendente dalla lingua e dallo stile. Essa è la forma che si lega alla storia e che si configura come strumento fondamentale per dare pieno compimento alla letteratura. Nell’esaminare la natura del romanzo, Barthes riconosce nell’uso del passato remoto il suo tratto distintivo: esso ha la capacità di portare ordine e coerenza nel racconto. Tuttavia il passato remoto può creare urti e interferenze con il presente storico: di conseguenza il critico lo elogia per la sua «apparente verosimiglianza» e, al contempo, lo biasima per la sua «sostanziale falsità». In questo contesto svolge un ruolo significativo l’uso della terza persona, nella quale si specchia e si consolida il legame tra la scrittura e la storia.

Nel passare poi ad analizzare l’evoluzione della forma nella letteratura, Barthes introduce il concetto di scrittura “artigianale” il cui massimo esponente è Flaubert il quale per primo individua nella condizione borghese elementi tragici prendendo coscienza della propria condizione di arte in quanto convenzione. Una variante di questa scrittura è quella adottata da Maupassant e da Zola: in loro la ricerca del realismo è così spiccata e accanita da produrre il risultato paradossale di una artificiosità estrema. Ma tale artificiosità, che investe anzitutto pulsioni e sentimenti, risulta gradita alla piccola borghesia, perché la giudica rassicurante e protettiva. Chi, al contrario, si affida a una scrittura totalmente neutra, e quindi raggiunge il grado zero, è Camus, in particolare con il libro Lo straniero, in cui viene scisso ogni legame con la forma e, di conseguenza, con la storia e la letteratura. Il rischio, in questo caso, è di cadere in un virtuosistico manierismo. Rispetto a questa dimensione si pone in antitesi Queneau, che innesca l’invasione del linguaggio nella scrittura. Tale modalità comporta, secondo Barthes, un ruolo più pronunciato e visibile dello scrittore il quale, proprio attraverso il linguaggio, si carica di una precisa responsabilità di impegno etico e morale.

Una delle sue opere più note è Frammenti di un discorso amoroso (1977). Mentre in Francia ferveva la passione politica alimentata dagli intellettuali più impegnati, Barthes, con un libro sull’amore, testimoniava senza infingimenti la sua determinazione a sottrarsi alle imperanti tendenze del momento. In un’intervista affermò: «Ho compiuto un atto di scrittura fuori moda, perché l’amore è fuori moda negli ambienti intellettuali». Il suo intento non è quello di elaborare “una filosofia dell’amore”, ma di enunciare un discorso cadenzato da “figure” che nel dipanarsi dell’opera assumono il volto della gelosia, dell’assenza, dell’incontro, del pettegolezzo. Scrive il critico nell’introduzione: «La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione, ovvero che il discorso amoroso è oggi di una estrema solitudine. Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione. Questa affermazione è in definitiva l’argomento del libro che qui ha inizio».

L’opera trasuda di riferimenti e di richiami, e il tessuto che ne deriva è quanto mai ricco e stimolante. Dal Simposio di Platone al Werther di Goethe, dai capolavori di Balzac e Dostoevskij, dalla psicoanalisi freudiana e lacaniana al realismo di Stendhal e alla dimensione onirica di Proust, è un susseguirsi di rimandi che convergono a stabilire una tesi secondo cui si ama l’amore più dell’amato stesso. In questo modo recitano una parte nevralgica l’assenza e l’attesa della persona amata.

Come ha sottolineato Valerio Magrelli nell’articolo in occasione dei trent’anni dalla morte, «Barthes si è sempre sottratto a ogni tentativo di definizione, sgusciando tra le maglie di generi e discipline per riaffermare, pur nell’assoluto rigore dell’analisi, le sue qualità di autore, nel senso più ampio del termine». Perché egli fu un critico che nello studio delle opere altrui trovò «la propria vocazione alla scrittura». Al punto che il Barthes teorico — evidenzia Magrelli — è diventato il Barthes narratore. In un’intervista il semiologo ebbe a dire che «senza prendere posizione sul fatto che io sia giudicato inclassificabile, devo riconoscere di aver sempre lavorato a sussulti, a fasi». E nel manifestare la sua avversione per la “stereotipia”, sosteneva che «la funzione dell’intellettuale è quella di andare sempre altrove rispetto a ciò che da lui ci si attende».

Prediligeva, nell’imbastire un discorso scritto, frasi brevi, «come è breve è il giorno e come breve è la vita» soleva dire. E quella brevità, fulminea e perentoria, era più che sufficiente a esprimere l’essenza vitale di un autore, anche il più prolifico. Gide era quindi «l’elusivo», cioè colui che riesce ad andare al cuore di una questione pur rimanendo ai «margini della pagina». E Voltaire, grazie alla sua confortante saggezza, e al suo disarmante e illuminante cinismo, «l’ultimo degli scrittori felici».

di Gabriele Nicolò