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Un'immagine di Lenin rimossa dopo la dossoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991 Un'immagine di Lenin rimossa dopo la dossoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991 

Trent’anni fa la dissoluzione dell’Urss

Su L’Osservatore Romano un articolo rievoca l’epilogo del gigante sovietico che aprì orizzonti di distensione

di Giovanni Benedetti

Nella memoria collettiva, l’evento immediatamente associato alla fine della guerra fredda rimane la caduta del Muro di Berlino del 9 novembre 1989.

Le immagini dei giovani in festa seduti a cavallo della struttura e quelle dei cittadini intenti a demolire la barriera di cemento con tutti gli strumenti a loro disposizione sono state in grado di catturare al meglio l’essenza di quella notte simboleggiante la conclusione di un’era.

Tuttavia, vi è un altro evento chiave dello stesso momento storico, meno conosciuto ma dall’importanza ancora maggiore per le sue conseguenze geopolitiche nel breve e nel lungo periodo, il cui trentesimo anniversario ricorre in questi giorni: l’Accordo di Belaveža. L’8 dicembre 1991, infatti, il presidente russo Boris Eltsin incontrava in una dacia situata nella foresta vicino Minsk i suoi corrispettivi di Ucraina e Belarus, Leonid Kravčuk e Stanislaŭ Šuškevič, per firmare l’accordo che sanciva la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss).

Questo evento epocale giungeva in seguito a un lungo processo di cambiamenti politici, iniziato con l’elezione di Mikhail Gorbaciov come segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) nel marzo 1985. Gorbaciov aveva infatti intrapreso una serie di riforme finalizzate alla riorganizzazione economica, politica e sociale del blocco sovietico, da lui stesso riassunte nei celebri termini “perestrojka” (ristrutturazione) e “glasnost” (trasparenza). L’operato di Gorbaciov, sebbene celebrato nel mondo occidentale come un’apertura senza precedenti (al punto da garantirgli il premio Nobel per la pace nel 1990), aveva generato invece un forte risentimento in patria, in particolare fra i membri più conservatori del partito. Tali frizioni, unite all’introduzione del multipartitismo nel febbraio 1990, avevano drasticamente ridotto l’influenza del Pcus e del suo segretario, che nel febbraio 1991 venne addirittura invitato pubblicamente a dimettersi da Eltsin durante una trasmissione televisiva. Nello stesso periodo si erano inoltre tenuti dei referendum per l’indipendenza nelle repubbliche baltiche, a favore della quale si era così espressa una schiacciante maggioranza in tutti e tre i Paesi. Nonostante un iniziale intervento militare operata in Lituania, Gorbaciov promosse di lì a poco un nuovo Trattato dell’Unione, che riconosceva il diritto di secessione alle Repubbliche sovietiche.

Spaventati dal susseguirsi di questi eventi, i membri più radicali del Pcus tentarono allora un colpo di stato nell’agosto 1991. Nonostante il fallimento della rivolta, esauritasi nel giro di tre giorni, l’accaduto ebbe un ruolo determinante nel decretare la perdita di influenza di Gorbaciov a favore del presidente Eltsin, il quale aveva precedentemente lasciato il partito.

Nei giorni successivi, mentre Gorbaciov sospendeva definitivamente le attività del Pcus, tutte le repubbliche sovietiche, dall’Ucraina all’Armenia, votarono a favore dell’indipendenza. Venne inoltre decretato lo scioglimento del Kgb, la temuta agenzia sovietica di intelligence.

L’incontro di Belaveža si svolse dunque in un contesto segnato da questi eventi, portando inevitabilmente alla dissoluzione del gigante sovietico. Al suo posto nasceva la Comunità degli Stati indipendenti (Csi), l’attuale organizzazione basata sulla cooperazione economica e sulla difesa comune. Fra il dicembre 1991 e il 1994 entrarono a farne parte tutte le ex Repubbliche sovietiche, esclusi i Paesi baltici. Attualmente la Csi comprende nove membri, in seguito all’uscita della Georgia nel 2009 (a causa del conflitto in Ossezia del Sud dell’agosto 2008) e dell’Ucraina nel 2018 (dovuta agli sviluppi della guerra in Crimea del 2014).

Iniziò così un periodo di cambiamenti radicali e di complesse sfide per la neonata Federazione Russa. Fra le tappe più importanti di questo percorso vi sono state la nuova Costituzione approvata nel dicembre 1993 e l’accordo sulla spartizione dell’arsenale nucleare sovietico con l’Ucraina, che rinunciò interamente agli armamenti balistici nel 1994.

Il Paese intraprese inoltre, su iniziativa del ministro delle Finanze Egor Gadjar, un processo di liberalizzazione economica noto come “terapia d’urto”.

La fine dell’Unione Sovietica dopo quasi 70 anni rappresentò un cambiamento di straordinaria portata per lo scenario globale, aprendo nuovi orizzonti di distensione e collaborazione. Fra le molte clamorose conseguenze di questo evento, alcune furono immediate, come la fine del bipolarismo militare e ideologico e l’entrata delle ex repubbliche sovietiche nell’Onu.

Altri effetti dello storico avvenimento manifestarono invece la loro influenza sullo scenario internazionale solo in un secondo momento. Diversi storici e studiosi di relazioni internazionali hanno infatti evidenziato come la fine dell’Urss abbia progressivamente portato i Paesi occidentali a definire nuove priorità nella loro agenda, come il commercio, la crescita economica, la tutela dell’ambiente e, nel campo della sicurezza, la lotta al terrorismo e alla criminalità transnazionali. Alcuni studiosi sono inoltre arrivati a teorizzare che anche le attuali frizioni fra la Russia e la Nato siano dirette conseguenze della dissoluzione dell’Urss. Gli esperti in questione ritengono infatti che tali tensioni derivino da una mancata integrazione di Mosca nell’ordine mondiale post-sovietico, dovuta a errori diplomatici compiuti da entrambe le parti, e da un clima di reciproca diffidenza mai del tutto superato.

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09 dicembre 2021, 16:05