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Gruppo di infermiere che lavorano all'ospedale Giovanni XXIII di Bergamo Gruppo di infermiere che lavorano all'ospedale Giovanni XXIII di Bergamo 

Infermieri, professionisti con un forte senso di attaccamento alla vita

Si celebra oggi la Giornata Mondiale dell’Infermiere, una figura da sempre fondamentale per il paziente e che, da oltre un anno, riveste un ruolo ancora più determinante a causa della pandemia. Il dottor Maurizio Zega del Policlinico Gemelli: "Lo spirito di servizio rende unica questa professione"

Eliana Astorri - Città del Vaticano

Lo scorso anno quando la pandemia si è pesantemente affacciata sul mondo, in tanti hanno potuto vedere tutti i giorni, attraverso i media, con quanto spirito di sacrificio e senso del dovere il personale infermieristico si sia preso cura nel momento più tragico, quanto si sia speso quando, addirittura, non aveva nemmeno dispositivi di protezione personale né sufficienti né adeguati. Papa Francesco ha più volte ricordato la loro dedizione, il "coraggio" e il "sacrificio" ma anche l'"amore" con il quale hanno assistito i malati di Covid-19 offrendo in alcuni casi la loro vita. Li ha definiti "santi della porta accanto". 

Una professionalità ben definita

Una figura professionale che effettua un lungo percorso universitario, dalla laurea di base, alla specialistica, fino al master o dottorato. Intervista al dottor Maurizio Zega, direttore del Sitra, Servizio infermieristico tecnico e riabilitativo aziendale della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli, per avere una fotografia del lavoro svolto dagli infermieri dall’inizio della pandemia.

Ascolta l'intervista al dottor Maurizio Zega

R. - È stato veramente un anno intenso, partito in modo difficile, sprovvisti in maniera adeguata dei dispositivi di protezione individuale. Io non so se si può comprendere come questa cosa sia particolarmente grave, perché è un rischio quasi costante di poter contrarre la patologia. Fortunatamente, comunque, nell'arco di poche settimane siamo riusciti ad arrivare a una copertura sui dispositivi, sempre a fatica, e da lì è iniziata l'opera di assistenza alle persone che avevano contratto la patologia. È un’assistenza che ha determinato uno stravolgimento perché le persone, sia medici che infermieri, destinati ad altre specialità, si sono trovati catapultati nelle malattie infettive generalizzate. Una gran parte di reparti di altre patologie sono stati trasformati in reparti Covid, quindi, hanno dovuto acquisire in tempi rapidissimi delle abilità e delle skills specifiche per poter gestire pazienti di questo tipo. Per non parlare degli innumerevoli posti letto in più in terapia intensiva che si sono realizzati, realtà dove il personale infermieristico e anche quello medico deve prevedere una formazione ulteriore a quella di base per poterci lavorare. È stato veramente un anno intenso.

Qual è il percorso universitario dell’infermiere?

R. –  Oggi la figura dell'infermiere è conosciuta in maniera maggiore da parte dell'opinione pubblica, è importante che si sappia che ha una formazione universitaria di base con la laurea triennale, poi ha una formazione di master di primo livello, ha la possibilità, e la gran parte degli infermieri lo hanno già, di due anni di specialistica, poi successivamente, molti colleghi hanno un master di secondo livello, se non addirittura il dottorato di ricerca. Chi le parla è un laureato magistrale masterizzato e con il dottorato di ricerca. Quindi, dieci anni di studi sulle spalle.

Cosa ci ha insegnato la pandemia?

R. – Ci ha fatto molto male, ci sta facendo molto male. Le migliaia di morti stanno lì a testimoniarlo, però, rispetto al sistema sanitario e alla sua capacità di risposta, ci ha insegnato che una medicina di attesa non è più adeguata. Noi l'avevamo già scoperto con l’epidemiologia, con l'invecchiamento della popolazione, perché appunto ormai la risposta sanitaria è più verso la polipatologia e le patologie croniche. Quindi passare da una medicina di attesa, cosiddetta riparativa, ad una risposta sanitaria proattiva, di contatto, di prossimità, di cui il rappresentante principe è proprio l’infermiere, questo sicuramente è un insegnamento della pandemia. La pandemia ci ha detto che i nostri sistemi, per carità, validi, devono essere aggiornati in questa direzione.

L'opinione pubblica ha chiamato eroi le infermiere e gli infermieri esprimendo così ammirazione e riconoscenza nei loro confronti. Loro si sono sempre schermiti dicendo: “È il mio lavoro”, ma non è un semplice lavoro. Un messaggio, dottor Zega, in occasione della Giornata mondiale dedicata a questa importantissima figura professionale…

R. – Sì, comprendo i colleghi che si sono scherniti. Adesso li chiamate eroi perché l'assistenza alla sofferenza e alla morte è qualcosa che ci contraddistingue nel lavoro. Noi siamo costantemente a contatto con questo. L'effetto pandemico ha amplificato nell'opinione pubblica questo aspetto, ma noi lo viviamo costantemente e quotidianamente. Una cosa è certa: l'infermiere è sicuramente un professionista che ha un forte senso di attaccamento alla vita ed ha, per questo, uno spirito di servizio che rende unica la sua professione tra le professioni sanitarie.

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12 maggio 2021, 08:00