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La visita a sorpresa del presidente Trump al contingente americano in Afghanistan, nel novembre 2019 (Olivier Douliery / Afp) La visita a sorpresa del presidente Trump al contingente americano in Afghanistan, nel novembre 2019 (Olivier Douliery / Afp)

Gli Stati Uniti dimezzano i militari in Afghanistan

La decisione della Casa Bianca porterà il contingente americano dalle attuali 5mila a 2.500 unità. Riduzioni anche per quanto riguarda le missioni in Iraq e Somalia. Il ritiro dei militari avverrà a gennaio 2021, a quasi vent’anni dall’11 settembre che ha cambiato la storia degli Stati Uniti. L’esperto di Difesa, Paolo Crippa: “Ci saranno conseguenze per la popolazione ed anche per gli alleati Nato"

Andrea De Angelis - Città del Vaticano

Un soldato americano su due che si trova attualmente in Afghanistan farà ritorno negli Stati Uniti all’inizio del prossimo anno. La decisione, anticipata dai media nazionali e confermata ieri dal nuovo segretario alla Difesa, Christopher Miller, segue diversi annunci in tal senso fatti dal presidente Donald Trump nel corso del suo mandato. Appena un mese fa il tycoon aveva anche ipotizzato “un ritiro totale delle truppe in Afghanistan” entro Natale. Ad essere ridotto, seppur in percentuali inferiori, saranno anche le forze armate impiegate in Iraq ed in Somalia.

Da Esper a Miller

Christopher Miller ha dunque annunciato un ritiro pari al 50% dei soldati Usa in Afghanistan. La Casa Bianca mantiene, dunque, la promessa di ridurre sensibilmente la portata delle sue missioni in Medio Oriente - diminuiranno anche i soldati in Iraq - ed in Africa, con un ritiro anche di militari attualmente impiegati in Somalia. Non tutti, però, erano d’accordo con questa decisione. Il precedente segretario alla Difesa, Mark Esper, avrebbe avvertito Trump, secondo quanto riportato dal Washington Post, dei numerosi rischi legati ad una simile operazione. In particolare sul buon esito dei negoziati con i talebani e sui pericoli maggiori per i militari che sarebbero rimasti in Afghanistan. Esper è stato licenziato una settimana prima dell’annuncio del ritiro, lo scorso 9 novembre. Miller è il quarto segretario alla Difesa della presidenza Trump.

L’Afghanistan oggi 

I colloqui di pace in Qatar tra il governo afgano ed i talebani sono, di fatto, in una condizione di stallo. Lo scorso mese violenti combattimenti hanno provocato decine di migliaia di sfollati, principalmente nella regione dell’Helmand. Numerose, purtroppo, anche le vittime tra i civili: il 22 ottobre un raid governativo nella provincia settentrionale di Takhar ha ucciso, tra gli altri, 12 bambini. Il presidente Ashraf Ghani ha invitato la coalizione occidentale a riflettere su un ritiro dal Paese. “I gruppi terroristici in Afghanistan - ha dichiarato in conferenza stampa il portavoce, Sediq Sediqqi - rappresentano ancora una minaccia per gli interessi dell’Afghanistan e dei suoi alleati internazionali”.

Le conseguenze sul campo

"Ci saranno conseguenze per l'Afghanistan, sia a livello macro con i negoziati tra Governo e talebani, ma anche micro, ovvero in riferimento a singole comunità e tribù dove si creeranno, diciamo così, degli spazi". Lo afferma nell'intervista a Vatican News Paolo Crippa, Analista del Desk Difesa & Sicurezza del Ce.Si, il Centro Studi Internazionali. 

Ascolta l'intervista a Paolo Crippa

"Certamente la decisione non è una sorpresa ed è da leggere nel lungo periodo. Non si tratta, cioè, di un colpo di coda dell'amministrazione Trump", prosegue l'esperto di Difesa, sottolineando come "Biden potrà solo rallentare il ritmo del ritiro statunitense dal Medio Oriente, ma non la strategia ormai in atto". Tra i fattori che potrebbero portare i democratici a rispettare la scadenza di un ritiro dall'Afghanistan nel 2024, c'è certamente la pressione in tal senso della Nato. "Gli americani rappresentano circa la metà in termini numerici delle forze Nato sul campo, dunque un ritiro improvviso e quantitativamente importante non crea problemi solo alla popolazione locale, ma anche agli alleati", sottolinea Crippa. Di ridimensionamento della missione statunitense si deve parlare anche per l'Iraq. "Qui però la situazione è diversa perchè torneranno a casa solo 500 militari dei 3mila attualmente nel Paese. Certamente - conclude l'analista del Ce.Si - la minaccia di Daesh in Iraq è inferiore rispetto al recente passato, ma la situazione è ancora di instabilità, specie a livello regionale".

La situazione in Iraq 

Pure in Iraq non mancano le tensioni, alimentate anche dalla crisi sanitaria della pandemia di Covid-19. Sono oltre mezzo milione i casi accertati e quasi 12mila le vittime nel Paese. In un simile scenario, la speranza è che la riduzione di un sesto dei militari americani nel Paese - da 3mila a 2.500 unità - non generi maggiore confusione. Lo scorso mese, in una nostra intervista, il cardinale Louis Raphael Sako commentava così l’enciclica del Papa, Fratelli tutti: “Era necessario sentire una voce diversa da quella di chi semina guerra, estremismo, male”. La voce del Patriarca dei Caldei giunge da una terra che ancora soffre delle tensioni politiche e delle miserie derivanti dai conflitti mediorientali. “C’è una confusione, soprattutto politica adesso, una tensione molto forte nel Paese fra coloro che sono pro Iran e gli altri che sono pro America. Questo accade non solo in Iraq ma in Siria, in Libia, in Libano e in tutto il Medio Oriente. Sono tensioni - spiegava - che fanno molto male alla popolazione”.

I timori della Nato

Il segretario generale della Nato Stoltenberg, ha commentato così la notizia giunta dagli Usa: “Siamo in Afghanistan da quasi venti anni e nessun alleato della Nato vuole restare più a lungo del necessario. Ma allo stesso tempo - ha aggiunto - il prezzo per partire troppo presto o in modo scoordinato potrebbe essere molto alto”. Stoltenberg ha fatto riferimento non solo ai rischi per l’Afghanistan, ma anche a quelli per i Paesi della Nato. “Il Paese - ha spiegato - rischia di diventare ancora una volta una piattaforma per i terroristi internazionali per pianificare e organizzare attacchi nelle nostre terre d’origine, e l’Is - ha concluso - potrebbe ricostruire qui il califfato del terrore che ha perso in Siria e Iraq”.

I Repubblicani parlano di “rischio Vietnam”

Sulle missioni militari all’estero il partito Repubblicano si spacca dopo le decisioni prese da Donald Trump. Per il senatore Mike Rounds “non si possono ridurre unilateralmente i livelli di truppe, ciò metterebbe a rischio il grande numero di successi che questa amministrazione è riuscita ad ottenere”. Il collega repubblicano Marco Rubio, che presiede la commissione Intelligence del Senato, cita il Vietnam: “La preoccupazione è ritrovarsi in un contesto simile a quello di Saigon, che comprometterebbe la nostra capacità di condurre operazioni contro terroristi nella regione”. Posizione condivisa dal senatore John Barrasso, il cui auspicio è che Trump “ascolti i consigli degli uomini e delle donne impegnate sul campo”.

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18 novembre 2020, 12:49