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Etiopia-Tigrai, appello Agenzia Habeshia: tacciano le armi

Don Mussie Zerai, fondatore dell’Agenzia umanitaria Habeshia, sottolinea il rischio concreto dell’allargarsi del conflitto a tutto il Corno d’Africa e chiede un intervento dell’Onu per spingere le parti al dialogo

Fabio Colagrande – Città del Vaticano

Dopo dodici giorni di combattimento tra l’esercito federale di Addis Abeba e le forze della regione del Tigrai, il conflitto in corso nel Nord dell’Etiopia rischia davvero di innescare un’escalation incontrollabile nell’intero Corno D’Africa. All’Angelus di domenica 8 novembre, Papa Francesco aveva esortato le parti in conflitto a “respingere la tentazione dello scontro armato”, invitandole “al dialogo e alla ricomposizione pacifica delle discordie”. Ma il recente lancio di razzi dalla regione dissidente del Tigrai verso le zone centrali del Paese e le minacce alla vicina Eritrea, oltre che il fiume di miglia di profughi in fuga verso il Sudan, confermano l’aggravarsi del conflitto. Nasce da qui l’appello alle parti in lotta e alle istituzioni internazionali, affinché facciano tacere le armi, lanciato dall'Agenzia umanitaria Habeshia. Secondo il fondatore, don Mussie Zerai, sacerdote eritreo, a colloquio con Radio Vaticana Italia, gli scontri rischiano di allargarsi dando il colpo di grazia a una regione già gravata da povertà, terrorismo e disastri ambientali:

Ascolta l'intervista a don Mussie Zerai

R.- Il lancio di missili dalla regione del Tigrai verso l'Eritrea, in particolare verso Asmara, è un chiaro segnale che il rischio di un’escalation è reale e bisogna evitare a tutti i costi che questa guerra si allarghi. È necessario che il conflitto si fermi subito perché non è certo con le armi che si risolvono queste contese tra regione e Stato centrale: bisogna che trovino una via pacifica per ragionare e trovare insieme una soluzione.

Il premier etiope Abiy Ahmed Ali, in un tweet, ha affermato che “prevarrà la giustizia” e la campagna del Governo “per mantenere la legge nella regione” del Tigrai "sta procedendo bene". Eppure voi parlate di una “guerra civile”….

R.- Purtroppo è ciò a cui stiamo assistendo sul campo. Ci sono stati bombardamenti, aggressioni e in alcune parti della regione si parla addirittura di massacri della popolazione. Non è confermato, ma si teme che negli scontri abbiano perso la vita centinaia di persone. Tutto ciò non può essere ridotto a una semplice questione di ordinaria amministrazione o a un’operazione di polizia interna. Quando si comincia a bombardare con gli aerei e si cominciano a lanciare missili, non solo verso l'Eritrea, ma anche verso altre regioni nella zona centrale del Paese, come il Gonder o il Bahir Darbar, tutto questo rischia di allargare il conflitto con esiti veramente imprevedibili. Lo dimostrano gli effetti di queste prime settimane di guerra: non solo centinaia di vittime ma anche venticinquemila civili in fuga dal Tigrai verso il vicino Sudan.

Come Agenzia Habeshia avete sottolineato che se la guerra si estendesse andrebbe ad accanirsi su una regione, quella del Corno d'Africa, già ferita da disastri ambientali, dalla minaccia del terrorismo, da fame e miseria endemiche…

R.- Sarebbe davvero “un colpo di grazia”. Questo conflitto non ci voleva proprio per una regione già martoriata che ha pagato un prezzo altissimo per le guerre del passato ed è anche climaticamente sofferente. Recentemente sono arrivate anche le locuste che hanno devastato i raccolti di tutta la parte settentrionale del Paese. Quando le problematiche si accumulano una sull’altra rischiano davvero di far soccombere quel tentativo di rilanciare la crescita e lo sviluppo, la pace e la coesione sociale, che si era faticosamente avviato. Bisogna ricordare poi che nel Nord, nella regione del Tigrai, vivono novantamila rifugiati eritrei che in questa fase rischiano di trovarsi tra due fuochi, senza nessuna via di fuga, se, come paventato, il Sudan chiudesse i suoi confini. Il rischio umanitario è davvero altissimo.

Nella fase iniziale del governo di Abiy Ahemd, premio Nobel per la pace nel 2019, l’Etiopia aveva suscitato grandi speranze in tutta l'Africa. Poi, cos'è accaduto?

R.- Il conflitto nasce da una serie di irrigidimenti reciproci di posizione tra governo centrale e autorità regionale. Da una parte c’è la Costituzione etiope che prevede un'ampia autonomia delle regioni e arriva addirittura a considerare la possibilità della secessione. È normale quindi che le varie regioni locali vogliano avere più autonomia possibile nelle loro scelte politiche, organizzative o quant'altro. Il Governo centrale, dal canto suo, sta cercando di tenere l’Etiopia più unita. Ne è nato, in questo caso specifico, un blackout nel dialogo, nel confronto per costruire insieme uno stato federale senza disgregare il Paese ma senza soffocare le autonomie. Questo si risolve solo tornando a ragionare e non certo con lo scontro militare che ha l’effetto di peggiorare le tensioni e aumentare l’irrigidimento delle posizioni. L’unica soluzione è tornare al tavolo delle trattative.

Da qui il vostro appello alle parti in conflitto e alle istituzioni internazionali…

R.- Ci appelliamo alla comunità internazionale, e specialmente alle Nazioni Unite, affinché intervengano energicamente per condurre le parti in conflitto attorno a un tavolo per poter trovare una soluzione pacifica senza ulteriori spargimenti di sangue in una regione dell'Africa che ha già pagato un prezzo altissimo.

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16 novembre 2020, 14:40