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Cerimonia via streaming della firma dell'accordo Regional Comprehensive Economic Partnership Cerimonia via streaming della firma dell'accordo Regional Comprehensive Economic Partnership  

Patto economico tra Cina e 14 Paesi dell'Asia-Pacifico

L'Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda hanno firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership. Resta interlocutoria l'India. Pechino acquista potere di influenza nell'area, mentre Washington, dopo aver rinnegato il Tpp di Obama, sembra allontanarsi dal Pacifico. Le dinamiche e gli obiettivi nell'intervista al professor Sergio Fabbrini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si tratta di un accordo di libero scambio che potrebbe coprire quasi un terzo del Pil mondiale, e che riguarda oltre due miliardi di persone. Si chiama Regional comprehensive economic partnership (Rcep),  ed è stato siglato virtualmente domenica scorsa a margine del vertice annuale dell'Associazione delle 10 nazioni del sud-est asiatico (Asean): oltre ai 10 membri dell'Asean include Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Da solo pesa di più, in termini di attività economica, non solo dell'Unione europea e del Cptpp (di cui fanno parte Paesi di Asia, Pacifico, Sud America, oltre a Canada e Messico), ma anche dell'accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada (Usmca).

I membri firmatari sperano di poter rilanciare l'economia dell'area fortemente provata dalla pandemia di Covid-19. Per il momento, è stata più che positiva la risposta dei mercati: Borsa di Tokyo e azionario Asia-Pacifico si sono evidenziati subito in rialzo, soprattutto nei titoli del settore auto e tecnologici.

Il Pacifico si allontana dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti sono fuori dalle ultime dinamiche di accordo allargato già da tre anni. Ricordiamo che il presidente Obama aveva sostenuto il Partenariato Trans-Pacifico, Trans-Pacific Partnership (Tpp), il progetto di trattato di regolamentazione e di investimenti regionali alle cui negoziazioni, fino al 2014, hanno preso parte dodici Paesi dell'area pacifica e asiatica (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam). Ma nel 2017 Donald Trump ha voluto il ritiro di Washington. Il Tpp si è poi evoluto nel cosiddetto Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), ma Trump ha continuato a sostenere una linea di intese praticamente bilaterali. Ora che la Casa Bianca sarà guidata dal democratico Joe Biden è possibile che Washington cerchi un impegno di tipo diverso dal predecessore Trump nel sud-est asiatico e in tema di sanzioni commerciali imposte alla Cina.

Per capire il peso e le specificità dell’accordo raggiunto, abbiamo intervistato Sergio Fabbrini, studioso di politiche internazionali e di governance, docente presso l’Università Luiss e la University of California a Berkeley:

Ascolta l'intervista con Sergio Fabbrini

Vincoli commerciali e minore conflittualità

Fabbrini spiega che l’importanza di questo accordo è nel fatto che si prevede che si ritrovino insieme Paesi di regimi politici diversi, un fattore per nulla scontato. Alcuni di questi sono storicamente protagonisti di dispute e di contese, come la Cina e il Giappone. E dunque l’occasione è importante. Fabbrini ricorda che come spiegava già Adam Smith là dove ci sono vincoli e scambi commerciali è più difficile che gli Stati arrivino a conflitti. Lo studioso però ricorda che si tratta del primo passo di un accordo, cioè è previsto che  la cooperazione economica nel prossimo futuro consista nell'apertura di dogane e nella riduzione di dazi.

La differenza con il concetto europeo di mercato unico

Fabbrini spiega che quanto creatosi inoltre è qualcosa di molto lontano dal concetto che abbiamo in Europa di integrazione economica, di mercato comune. In Europa si è andati molto avanti partendo dal 1957 – ricorda Fabbrini – e da allora è stato sviluppato un processo a tappe: inizialmente forme di collaborazione economica e poi il mercato comune che ha portato, alla fine negli anni Ottanta, a un mercato unico. Fabbrini sottolinea come al mondo non ci sia un altro mercato integrato come è quello europeo, affermando che è perfino più integrato di quello degli Stati Uniti d’America. Un altro elemento di differenziazione fondamentale – mette in luce Fabbrini - è che in Europa abbiamo creato un meccanismo di scambi creando delle istituzioni con ruoli precisi anche in ambito di politiche economico-monetarie e poi abbiamo creato la Corte europea di giustizia che ha anche potere di dirimere le controversie di tipo commerciale, tra Stati o tra diversi attori delle dinamiche commerciali. Ovviamente si tratta per i Paesi europei di un cammino lungo e articolato che dunque non è paragonabile a quello di cui si parla oggi. Fabbrini in sintesi torna a sottolineare l’importanza di accordi di cooperazione regionale  come quello raggiunto dai 14 Paesi, ribadendo però che si tratta di un primo passo e che non si può parlare di mercato integrato né tantomeno di meccanismi in grado di affrontare in modo concertato le dispute che rimarranno questioni tra Stati.  

La scelta dell'India

Fabbrini poi commenta la scelta di rimanere distante dall’accordo di cooperazione fatto dall’India, ricordando che il presidente Modi ha optato per forme di nazionalismo economico in linea con le politiche del presidente statunitense Trump, riassunte nel motto “America first”, di cui è diventato grande alleato. La prospettiva ormai consolidata di un cambio di guida alla Casa Bianca, con l’avvento di Joe Biden sostenitore della logica del multilateralismo, apre dunque – sottolinea Fabbrini – a prospettive diverse da parte di Washington e forse anche da parte di New Delhi, che nell’immediato risentirà del venir meno dell’alleato sul piano internazionale.  

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16 novembre 2020, 15:37