Lavori di infrastrutture Lavori di infrastrutture 

Lavoro e salario minimo: un'altra sfida europea

“Per troppe persone il lavoro non paga”: a riconoscerlo è stata la presidente della Commissione europea nel suo discorso sullo stato dell'Unione, a metà settembre. Ursula von der Leyen ha lanciato la sfida di uno standard comune per i salari minimi. Con noi l'economista Carlo Altomonte

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il salario minimo, nel diritto del lavoro, è la più bassa remunerazione o paga oraria, giornaliera o mensile che in taluni stati i datori di lavoro devono per legge corrispondere ai propri lavoratori dipendenti ovvero impiegati e operai. Non esiste una legislazione uniforme in materia di salario minimo all'interno dell'Ue. In varie costituzioni, fra le quali in quella italiana, è sancito il diritto ad un'equa retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto. La maggior parte degli Stati adotta un salario minimo, mentre gli altri non hanno un salario minimo imposto per legge, ma delegano alla contrattazione fra le parti sociali tale decisione.

Le parole di Ursula von der Leyen

“Tutti nell’Unione devono avere i salari minimi. Funzionano ed è giunto il momento che il lavoro ripaghi”. E' quanto ha detto la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, al Parlamento europeo riunito a Bruxelles il 16 settembre scorso. Un concetto ribadito con forza: “La verità è che per troppe persone il lavoro non paga, il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro e penalizza gli imprenditori, distorce la concorrenza del mercato interno, e bisogna porre fine a questa situazione”. La Commissione avanzerà una proposta su una normativa per sostenere gli Stati membri e istituire un quadro sui salari minimi. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso contrattazioni collettive e con salari mini statutari”. Per capire i significati, le difficoltà e le potenzialità di questa sfida, abbiamo intervistato Carlo Altomonte, docente di politiche economiche all'Università Bocconi: 

Ascolta l'intervista con Carlo Altomonte

Il professor Altomonte spiega che la sfida lanciata dalla presidente della Commissione europea in tema di salario minimo è in sostanza figlia dei tempi duri della crisi sanitaria e economica e soprattutto di una nuova mentalità della Commissione stessa, che si è presentata da subito come fortemente operativa. Si inserisce in una serie di misure che l'economista ricorda a partire dal provvedimento Sure legato al Recovery Fund con la quale la  Commissione si è fatta carico di disoccupati e persone colpite dalla cassa integrazione nei singoli Paesi europei, a partire dall'Italia. E mette in relazione il discorso sul salario minimo ricordando che la perdita di posti di lavoro diventa un motivo di minor preoccupazione per il singolo lavoratore, quando insieme al salario minimo si istituisce un sussidio di disoccupazione che funziona come ammortizzatore sociale. Altomonte si sofferma anche sulle difficoltà concrete di attuare un vero e proprio salario minimo europeo. Ricorda che alcuni Paesi hanno il loro standard legato a varie politiche che andrebbero dunque ammortizzate e  cita poi anche la questione del costo della vita, diverso da Paese a Paese. Ma Altomonte parla di una sfida significativa che va nella direzione di una Commissione europea che vuole difendere gli stadanrd di wellfare  dell'Unione europea in un mondo di globalizzazione dove si vanno affermando altri standard ben diversi, come quello cinese ma anche lo stesso statunitense che non assicura le stesse tutele. 

Pro e contro secondo le ipotesi accademiche

Anche se le leggi sul salario minimo sono in vigore in molte nazioni, esistono differenti opinioni su vantaggi e svantaggi sulla sua eventuale introduzione. I sostenitori affermano che esso aumenta il tenore di vita dei lavoratori, riduce la povertà, ridurrebbe le disuguaglianze sociali, aumenterebbe il benessere lavorativo e costringerebbe le aziende ad essere più efficienti. Viceversa, gli oppositori lamentano il fatto che esso aumenti la povertà e la disoccupazione (in particolare tra i lavoratori non qualificati o senza esperienza) e che sia dannoso per le imprese. Un primo argomento sostiene che in un libero mercato qualsiasi limitazione introdotta da soggetti esterni (una legge dello Stato) da lato della domanda e/o dell'offerta sia ai prezzi che alle quantità (quote) di vendita e produzione, porta a un'area di mancato incontro tra domanda e offerta, quindi un equilibrio peggiore del mercato libero. L'introduzione di un salario minimo limita il funzionamento del mercato del lavoro, creando un divario tra lavoratori disponibili e richiesti, vale a dire disoccupazione. Argomento in senso opposto è la constatazione pratica che nessun mercato del lavoro libero e totalmente deregolamentato ha mai raggiunto l'obiettivo teorico della piena occupazione.  

 Le situazioni nazionali attuali

Sono 23 su 27 i Paesi dell'Unione Europea che lo hanno adottato, di importo molto variabile anche in relazione al costo della vita locale. Il Belgio si differenzia dagli altri per il suo sistema "sistema duale", in cui la contrattazione di settore si aggiunge alla determinazione statale del salario minimo. L'ultimo Paese europeo ad aver introdotto il salario minimo è stata la Germania (dal 1º gennaio 2015). In Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia non esiste, invece, previsione legislativa per un salario minimo: la determinazione dei minimi retributivi viene affidata alla competenza negoziale di settore.

La Direttiva Bolkestein

La Direttiva 96/71/CE sulla liberalizzazione dei mercati europei è stata emendata nel 2006, sottraendo al principio dell'Home Country Control diversi aspetti, fra i quali il salario minimo. Il lavoratore straniero ha diritto al salario minimo previsto dalle leggi del Paese nel quale lavora, in modo indipendente dal proprio Paese di origine e da quello dove ha sede legale il datore di lavoro. La Direttiva, nota con il nome del relatore Bolkestein, regolamenta le tutele dei lavoratori distaccati per una prestazione di servizi transnazionali. A questi si applica il trattamento retributivo, ricavabile da leggi e contratti collettivi di lavoro, più favorevole (art. 3.7) fra quello dello Stato di origine, dove ha sede legale il datore di lavoro, e lo Stato membro in cui ha luogo la prestazione lavorativa. Dello Stato in cui ha luogo la prestazione, tuttavia, si possono applicare solamente i contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, sia nell'intero territorio nazionale dello Stato membro ospitante che all'intero settore cui la prestazione è riferibile (in particolare sia pubblico che privato). La contrattazione decentrata territoriale o aziendale viene esclusa perché per un prestatore di servizi transnazionale avrebbe reso troppo onerosa e complessa la determinazione del salario minimo dei lavoratori, ovvero reso legittime clausole sociali locali e anticoncorrenziali che, per operare nel territorio, avrebbero obbligato i soggetti stranieri a concedere condizioni di lavoro più favorevoli di quelle cui sono tenute le imprese nazionali.

Le prime esperienze a inizio secolo scorso

Introdotte per la prima volta in Nuova Zelanda (1894), Australia (1896) e Regno Unito (1909), le leggi sul salario minimo sono state poi introdotte, in molti altri Paesi del mondo, oltre che d'Europa, tra cui negli Stati Uniti nel 1938.  

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

26 settembre 2020, 10:41