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Srebrenica: il genocidio che divide la Bosnia, 25 anni dopo

L' 11 luglio 1995, dopo aver occupato la città, "zona protetta" dall'Onu, dove si erano rifugiati 40 mila musulmani bosniaci, l'esercito serbo bosniaco massacrò 8327 civili e militari inermi. La strage più grave in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, per la quale i colpevoli sono stati condannati per genocidio dalla giustizia internazionale, è ancora negata dalle autorità serbo bosniache. Le testimonianze del Gran Muftì di Bosnia di allora, e del parroco di Srebrenica

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Tra le 6643 vittime del genocidio di Srebrenica sepolte nel cimitero-memoriale di Potocari, il sobborgo della città bosniaca sul fiume Drina che 25 anni fa fu teatro del più grave massacro di civili in Europa dalla Seconda guerra mondiale, non ci sono solo musulmani bosniaci. Riposa anche Hren (Aleksandar) Rudolf, un cattolico serbo emigrato a Srebrenica per lavoro, e la sua è l’unica stele con una croce. Insieme al fratello, morto all’inizio dell’assedio della città a maggioranza musulmana in una Bosnia orientale soprattutto serbo ortodossa, rimase a combattere a fianco dei concittadini islamici, con cui aveva vissuto fino a quel momento. La famiglia ha acconsentito alla sua sepoltura a Potocari, in quel memoriale realizzato nel 2003 sul terreno della base dei caschi blu delle Nazioni Unite che avrebbero dovuto proteggere gli abitanti e chi si era rifugiato a Srebrenica, in 40 mila nel luglio 1995, dichiarata due anni prima “zona protetta” dall’Onu.

La tomba di Hren Rudolf, l'unico cattolico sepolto nel cimitero di Potocari
La tomba di Hren Rudolf, l'unico cattolico sepolto nel cimitero di Potocari

L’ orrore, tra l’11 e il 16 luglio 1995

E invece Srebrenica fu occupata dalle milizie serbo-bosniache, guidate da Ratko Mladic, l’11 luglio, senza che i 600 caschi blu olandesi facessero nulla per impedirlo, e due caccia Nato, mandati quando ormai i serbi erano in città, danneggiarono solo un carro armato degli invasori.

Che risposero minacciando di uccidere i 55 militari olandesi presi in ostaggio. Il governo olandese e i responsabili locali dell’Onu decisero di negoziare la resa. Hren e le altre 8326 vittime di quello che la Corte internazionale di giustizia, nel 2007, ha definito genocidio, furono uccisi tra l’11 e il 16 luglio, tra i 10 mila che cercarono di fuggire nei boschi verso Tuzla, altra enclave musulmana ma circondata dall’esercito serbo bosniaco, o tra i 25 mila che si ammassarono all’esterno della base Onu implorando la protezione dei caschi blu. Le donne, i bambini e gli anziani furono caricati su autobus e mandati a Tuzla, gli uomini tra i 13 e il 65 anni ammassanti in campi sportivi, palestre, magazzini e radure nei boschi, con la scusa di rintracciare tra loro presunti “criminali di guerra”, e invece trucidati senza pietà e sepolti in fosse comuni.

Una fossa comune dove furono recuperati i corpi degli uomini trucidati
Una fossa comune dove furono recuperati i corpi degli uomini trucidati

Solo i bombardamenti Nato fermarono i serbo bosniaci

I sopravvissuti raccontarono presto l’orrore ai giornalisti internazionali che raggiunsero i profughi a Tuzla, ma la Nato decise il bombardamento aereo delle postazioni serbe solo il 30 agosto, dopo la caduta del villaggio musulmano di Zepa e soprattutto la nuova strage al mercato di Sarajevo, il 28 agosto, quando una granata serbo-bosniaca fece 37 vittime civili. Con 750 missioni di attacco, 3400 voli su 56 obiettivi, la missione Deliberata Force (Forza volontaria) mandò in tilt l’esercito serbo bosniaco. I soldati musulmani e croati riconquistarono circa il 20 per cento del Paese, e gli Stati Uniti riuscirono a convincere i serbi a smettere di colpire i civili e a sedersi al tavolo di pace.

Il 21 novembre, la pace di Dayton

Il 21 novembre, a Dayton, in Ohio, venne firmato un accordo di pace. Ai serbi, 31 per cento della popolazione, restò il 49 per cento del territorio, denominato Repubblica Srpska, mentre croati, il 17 per cento, e musulmani, il 44, si dividevano in parti uguali il restante 51 per cento, nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina, la seconda entità del Paese. Tre territori quasi etnicamente “puri” sotto un governo centrale estremamente debole, protetto da oltre 20 mila soldati della Nato. Dall’aprile 1992, la guerra aveva causato 200 mila morti e una persona su due aveva perso la casa.

I nomi delle 8327 vittime del genocidio, nel memoriale di Potocari
I nomi delle 8327 vittime del genocidio, nel memoriale di Potocari

La denuncia dello scrittore ebraico americano Wiesel

Elie Wiesel, scrittore statunitense di origine ebraica, sopravvissuto ad Auschwitz e premio Nobel per la Pace, e che aveva cercato a più riprese di convincere l’allora presidente Usa Bill Clinton a bombardare i serbi per evitare il genocidio, commentò: "La lezione cardinale di Srebrenica è che un tentativo deliberato e sistematico di terrorizzare, espellere o uccidere un intero popolo deve essere affrontato con tutti i mezzi necessari". "Dobbiamo sempre schierarci. La neutralità aiuta l'oppressore, mai la vittima. Il silenzio incoraggia l'aguzzino, mai il tormentato. A volte dobbiamo interferire. Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali e le sensibilità diventano irrilevanti ".

La “pulizia etnica” e il genocidio

E fin dal 1992, fin dai primi campi di detenzione e tortura in tutta la Bosnia orientale per la sua “pulizia etnica” dai musulmani bosgnacchi, era chiaro l’obiettivo dei politici e dei militari serbo bosniaci. La creazione di uno stato totalmente serbo, “purificato” da bosgnacchi e croato-bosniaci, da annettere poi a Belgrado. Ultimo atto, il genocidio di Srebrenica, commesso, secondo la Corte internazionale di giustizia, “con lo specifico intento di distruggere il gruppo etnico dei bosgnacchi (i musulmani bosniaci)”.

il Gran Muftì emerito di Bosnia Mustafa Ceric
il Gran Muftì emerito di Bosnia Mustafa Ceric

Il Gran Muftì Ceric: alla ricerca di verità e giustizia

In quegli anni, la guida spirituale dei musulmani di Bosnia era il Gran Muftì Mustafa Ceric, in carica dal 1993 al 2012. A lui, uomo di dialogo che ha guidato nel 2008 la delegazione islamica al primo Forum cattolico-islamico in Vaticano e che oggi è membro del Consiglio Interreligioso di Bosnia ed Erzegovina, chiediamo innanzitutto come vive questi giorni di commemorazione del genocidio.

R. - Vivo in salute nella pacifica città di Sarajevo, la Gerusalemme d'Europa, come l'ha chiamata il Santo Padre quando l'ha visitata nel 2015 e l'ha benedetta con il suo messaggio: "La pace sia con voi"! Vivo questi giorni ricordando con questa preghiera le vittime e martiri del genocidio di Srebrenica: “Dio Onnipotente Misericordioso! Se sbagliamo, concedici la forza del pentimento di Adamo. Se l'eresia ci mette in ombra, illumina i nostri cuori con la purezza della fede di Ibrahim/Abramo. Se la sventura ci colpisce, insegnaci a costruire l'Arca della salvezza di Nuh/Noè. Se siamo presi dalla paura dell'oppressore, rendici capaci della giustizia di Musa/Mosè. Se ci viene dato l'odio, salvaci con l'amore di Isa/Gesù. Se siamo espulsi dalle nostre case, rendici capaci, con il desiderio di Maometto, di tornare nelle nostre case!

Cos’è cambiato in Bosnia-Erzegovina in questo ultimo anno? Sono stati fatti passi in avanti nel difficile cammino di riconciliazione nazionale e guarigione delle ferite? Oppure passi indietro?

R. - Non è cambiato nulla. Noi in Bosnia siamo in un processo permanente di ricerca della verità, chiedendo giustizia, pregando per la pace e sognando la riconciliazione. Questo non è facile, ma non c'è altra via da percorrere qui. Ci riusciremo, a condizione che i nostri cuori siano pieni di fede in Dio e le nostre menti siano piene di speranza nella bontà umana. La verità è una condizione per la salute mentale dell'individuo; la giustizia è una condizione per la salute sociale della comunità; la pace è una condizione per una vita umana armoniosa; e la riconciliazione è una condizione per la nostra comune esistenza umana nel suo insieme su questo bellissimo pianeta Terra che Dio Onnipotente ci ha affidato, per prendercene cura per il nostro bene e per la Sua gloria.       

Cosa possono fare ancora i leader religiosi ortodossi, musulmani, cattolici ed ebrei per favorire questa riconciliazione?

R. - Possono fare molto e devono farlo ora e qui, per il bene dell'umanità, che rischia di estinguersi, se queste religioni mondiali non fanno passi seri verso la pace e la riconciliazione dell'umanità, a prescindere dalla razza e dalla pelle, a prescindere dall’orientamento politico e ideologico, a prescindere dalla provenienza geografica. Oggi più che mai siamo consapevoli di essere una sola famiglia dell'umanità, e di avere, come in un matrimonio, un destino comune, nel bene e nel male, nella ricchezza e nella povertà, nella malattia e nella salute, di amarci e rispettarci, finché morte non ci separi, secondo la suprema ed eterna legge divina di fede e di moralità. Questo è il voto solenne che dobbiamo fare oggi a Dio Onnipotente e gli uni agli altri per la nostra semplice sopravvivenza come umanità. Questo è esattamente ciò che Papa Francesco e il Grande Imam Ahmad Tayyb di Al-Azhar, Il Cairo, hanno fatto nel febbraio dello scorso anno ad Abu Dhabi. Che Dio li benedica!  

Nella comunità serbo-bosniaca e serba ci sono stati nuovi segni di consapevolezza del genocidio e la volontà di chiedere perdono e riconciliarsi, o prevale ancora la negazione di quanto accaduto?

R. - Ci sono alcuni individui e gruppi, nel popolo serbo, che sono disposti a confessare il peccato di genocidio e a chiedere perdono, ma l'approccio ufficiale serbo è ancora intrappolato nelle catene della negazione, che è un ostacolo a una riconciliazione che deve essere basata sulla verità e sulla giustizia, nonché sulla promessa che tale crimine non si ripeterà mai più.  Ma si spera che l'intera nazione serba si renda conto che la confessione del peccato di genocidio è l'unica via verso il perdono.           

Cosa manca ancora per fare giustizia completa? Ci sono corpi da ritrovare, case da restituire ai legittimi proprietari, risarcimenti da decretare o colpevoli da catturare e giudicare?

R. - Tutto ciò che lei ha detto manca ancora, ma qualche progresso è stato fatto, così che alcune famiglie hanno trovato alcuni pezzi dei loro cari nelle fosse comuni. Stanno seppellendo questi resti sempre l'11 luglio, con dolore e lacrime. Questo è molto doloroso per tutti noi, anzi, per tutte le persone di buon cuore e di buona volontà. Possiamo solo pregare per queste famiglie, che Dio Onnipotente dia loro la forza della fede. La fede è il miglior antidolorifico dell'animo umano.

L’emergenza comune per il Covid-19 ha avvicinato o distanziato ancora di più le tre comunità che vivono in Bosnia-Erzegovina?

R. - Non solo tre comunità in Bosnia. Il virus Covid-19 ha riunito l'intera umanità, nel rendersi conto di quanto siamo vulnerabili contro un piccolo nemico invisibile e di quanto siamo dipendenti l'uno dall'altro in caso di pandemia. Spero che il Covid-19 abbia insegnato all'umanità una cosa importante, cioè che dobbiamo cambiare il nostro comportamento in modo da obbedire all'eterna legge morale divina dell'amore a Dio e dell'amore per il prossimo, nonché alla legge della natura, che Dio ha creato per essere armoniosa in ogni modo, affinché la vita sulla terra continui per il bene dell'umanità, che deve smettere di corromperla in modo vizioso a danno non solo di sé stessa, ma anche dell'esistenza nel suo insieme. Che Dio ci salvi dalle nostre azioni malvagie. 

A Srebrenica anche 35 famiglie di cattolici

A Srebrenica non riposa solo il cattolico serbo Hren, ma vive una piccola comunità cattolica di circa 35 famiglie, mentre nella vicina Bratunac sono una ventina, molte nate da matrimoni misti, con ortodossi ma anche con musulmani. Durante la guerra sono fuggite o sono state costrette ad andarsene, ma dopo molti sono tornati nelle loro case devastate. Si riuniscono per la messa due volte al mese e nelle principali festività nella cappella commemorativa costruita nel 1991 sulle fondamenta della grande chiesa di Santa Maria e del monastero, eretti dai francescani bosniaci nel 1271. Srebrenica era infatti la sede della loro Provincia Bosna Srebrena.

Padre Franjo NInic, il parroco francescano di Zvornik-Srebrenica
Padre Franjo NInic, il parroco francescano di Zvornik-Srebrenica

Il parroco padre Ninic: il nazionalismo è ancora molto forte

Il loro parroco è padre Franjo Ninic, che gestisce la parrocchia di Zvornik-Srebrenica e celebra due volte al mese in entrambe le città. Gli chiediamo come si vive sulle rive della Drina oggi, e come serbi, croati e musulmani bosniaci riescono a convivere con il ricordo dell’orrore di 25 anni fa.

R. - Le ferite della guerra, soprattutto i crimini commessi durante la guerra, gravano sulla vita e sulla convivenza delle comunità serbe e bosniache in primo luogo. I croati, che sono per lo più cattolici, sono circa 80 in tutta la Valle della Drina, e combattono per una vita dignitosa, per migliori condizioni materiali e hanno una comunicazione decente sia con i serbi che con i musulmani bosniaci. La commemorazione del 25° anniversario del genocidio di Srebrenica è vista in modo diverso dalla parte bosniaca, che ne è stata vittima, e da quella serba, la cui leadership militare e politica è stata condannata per genocidio al Tribunale dell'Aia. La politicizzazione del genocidio stesso è visibile, così come la negazione o lo sfruttamento delle vittime per i recenti scontri politici e interetnici a Srebrenica e dintorni.

Sta finalmente cambiando la Bosnia-Erzegovina? Negli ultimi anni sono stati fatti passi in avanti, anche piccoli, nel difficile cammino di riconciliazione nazionale e guarigione delle ferite? Oppure passi indietro?

R. - I cambiamenti sono visibili in alcuni segmenti della società in Bosnia-Erzegovina (BiH). 25 anni dopo la dura guerra, il sistema parlamentare democratico funziona in parte, si tengono elezioni, ci sono cambiamenti positivi verso l'adesione all'Ue e alla Nato, il settore civile e delle Ong si sta sviluppando, il Pil sta lentamente crescendo. Tutto grazie agli interventi e alla mediazione della comunità internazionale. Tuttavia, il processo di riconciliazione interetnica e quello che lei ha definito "la guarigione delle ferite" è lento. Le narrazioni nazionalistiche sono ancora molto forti e presenti nella società, sostenute in parte dalla stretta connessione tra comunità religiose e politiche nazionali. Le organizzazioni internazionali per la pace, il Consiglio interreligioso della BiH e alcuni rappresentanti di tutte le comunità religiose più diffuse (Chiesa cattolica, Comunità islamica, Chiesa serbo-ortodossa e Comunità ebraica) cercano su più livelli non solo di guarire le ferite di guerra, ma anche di guarire i ricordi, che spesso appesantiscono gli attuali processi di vita e di riconciliazione. La responsabilità delle comunità religiose in questo processo è la più grande.

Cosa possono fare ancora i leader religiosi ortodossi, musulmani, cattolici ed ebrei per favorire questa riconciliazione?

R. - Tutti i leader delle comunità religiose in BiH sono coinvolti in un'istituzione chiamata Consiglio interreligioso della BiH. La missione fondamentale di questa organizzazione è promuovere la riconciliazione e favorire la creazione una società e uno Stato basati sul rispetto dei diritti umani, delle libertà civili, della responsabilità, della giustizia e di tutto ciò che deriva positivamente dalle religioni: il teologo Hans Küng l'ha chiamata "ethos mondiale". In una parte della BiH raggiungono questo obiettivo. Forse questo tipo di attività dovrebbe essere trasferito più attivamente a Srebrenica e dintorni.

La piccola comunità cattolica di Srebrenica, riesce ad essere testimone di riconciliazione, in questa situazione così particolare? C’è dialogo ecumenico con la comunità ortodossa e interreligioso con quella musulmana? Qual è la missione di voi francescani in questa città, dove nel 1291 fu costruita la grande chiesa di Santa Maria poi distrutta?

R. - La piccola comunità cattolica di Srebrenica, con la sua stessa esistenza, testimonia già la possibilità di riconciliazione tra la gente comune di questa città e dei suoi dintorni. Tuttavia, il problema non sono i rapporti della gente comune che comunica, lavora e condivide il destino della vita a Srebrenica. Il problema della riconciliazione è più nell'ambito della politica, delle interpretazioni della storia, delle guerre e delle relazioni interetniche e interreligiose nella Valle della Drina. Il dialogo ecumenico e interreligioso a Srebrenica, Bratunac e Zvornik, dove svolgo il mio servizio come sacerdote, segue il modello stabilito dal Consiglio interreligioso della BiH, che comprende l'istituzione di comitati locali per la cooperazione interreligiosa e la comunicazione attiva dei rappresentanti delle comunità religiose in alcune comunità locali. L'influenza delle politiche nazionali sui rappresentanti delle comunità religiose della Valle della Drina è più accentuata, e quindi il dialogo ecumenico e interreligioso è un po' meno intenso che in altre città della BiH. I francescani di Bosna Srebrena stanno cercando, per quanto possibile, grazie al loro carisma e la loro lunga presenza a Srebrenica, di essere iniziatori e mediatori nel processo di dialogo e di riconciliazione.

Nella comunità serbo-bosniaca e serba ci sono stati nuovi segni di consapevolezza del genocidio e la volontà di chiedere perdono e riconciliarsi, o no?

R. - Ci sono persone sia all'interno della comunità nazionale serba che all'interno della Chiesa ortodossa serba che sono a conoscenza dei fatti del genocidio e dei crimini avvenuti a Srebrenica. Una parte di loro è attivamente impegnata nella riconciliazione e nel dialogo. Alcuni di loro hanno persino chiesto perdono. Il problema, come ho già detto, è che gli eventi del 1995, così come l'intera guerra, sono profondamente politicizzati e che non c'è un consenso nazionale o religioso sulle interpretazioni degli eventi stessi o sulla natura dei crimini commessi durante la guerra, compreso il genocidio stesso.

L’emergenza comune per il Covid-19 ha avvicinato o distanziato ancora di più le tre comunità che vivono in Bosnia-Erzegovina?

R. - La mia esperienza è che la pandemia di Covid-19 ha creato un po' più di solidarietà tra la gente comune e le comunità nazionali in BiH, soprattutto nei primi mesi. L'appello a preservare la salute delle persone e la responsabilità per gli altri è stato pubblicamente rivolto alla gente più che soliti racconti nazionalisti o esclusivisti del nostro Paese. Le comunità religiose hanno fatto molto per sensibilizzare le persone a rispettare le misure di protezione, per proteggere i gruppi a rischio (anziani e bambini) e in generale si potrebbe concludere che l'attuale pandemia ha riunito in BiH persone di diverse nazionalità e di diversa estrazione politica o religiosa.

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10 luglio 2020, 08:30