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Tolentino: nel tempo del distanziamento riscopriamo la comunità

Secondo il cardinale Tolentino de Mendonça, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, “nessuno deve sentirsi abbandonato” al tempo della pandemia. “Abbiamo capito che il dono di sé è il vero fondamento della nostra esistenza”

Fabio Colagrande – Città del Vaticano

“È questa l’ora in cui realmente possiamo reimparare tante cose”, “conferendo sostanza effettiva a parole che tante volte ne sono state deprivate, come “prossimità, vicinanza, umanità, popolo, cittadinanza”. Questa riflessione sulla necessità di dare un nuovo significato a vocaboli ormai usurati è di un uomo di Chiesa che ha familiarità con la parola: il cardinale José Tolentino de Mendonça archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Teologo e poeta di origini portoghesi, Tolentino ha raccolto alcune meditazioni sui risvolti spirituali del tempo della pandemia nell’e-book “Il potere della speranza” pubblicato a fine marzo per Vita e Pensiero. Ai microfoni di Radio Vaticana Italia, il porporato riflette oggi su questa esperienza drammatica, chiedendosi innanzitutto se sia stata solo una parentesi o un vero e proprio cambiamento d'epoca: 

Ascolta l'intervista al cardinale Tolentino

R.- La vita non ama l'immobilità. È sempre un’illusione pensare che la vita possa rimanere una realtà chiusa o sospesa. La vita è un fiume: quando trova un ostacolo s’inventa un altro cammino. Ancora è presto per dire cosa è stata veramente quest’esperienza che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo. Per adesso vediamo soprattutto la parte negativa, la descriviamo come un trauma, un’aggressione inaspettata che abbiamo sofferto, patito. Ma tra un po’ di tempo, speriamo il prima possibile, potremmo leggere anche le conseguenze di questa pandemia come opportunità positive che si sono aperte davanti a noi. In questo senso potremmo considerarlo un vero cambiamento d’epoca e non una semplice parentesi.

Cosa ci sta insegnando questo tempo?

R.- Direi che ci ha già insegnato tanto, come ci ha ricordato tante volte Papa Francesco. Prima di tutto ci ha mostrato in profondità la nostra vulnerabilità. Perché la rappresentazione del mondo, che era dominante prima della pandemia, si è mostrata in tutta la sua fragilità. Impariamo tanto quando ci riconosciamo fragili. Poi ci ha insegnato il primato della vita, ci siamo ricordati che la prima cosa da difendere è la vita e questa è un’esperienza fondamentale. Ancora ci ha mostrato l'importanza della famiglia e poi un concetto decisivo che è quello del dono di sé. Abbiamo visto negli ospedali, con i medici e gli infermieri e tutto il personale tecnico, ma anche in tanti altri ambiti in cui si lavora per assicurare le esigenze vitali minime di una società, come il dono di sé sia il vero fondamento della nostra esistenza.

Lei ha scritto che questa esperienza ci può anche aiutare a purificare i concetti di prossimità e di distanza, cosa intendeva dire?

R.- Ci addolora tanto che oggi la prossimità sembri quasi sospesa, sia vietata, impossibile. Ma può essere anche un’opportunità per rivedere in profondità il senso di queste parole. Perché il nostro vero problema è la vita sonnambula che conduciamo, la pura meccanicità della nostra esistenza. Per esempio: diamo per scontata la prossimità, invece è sempre una costruzione, è sempre una scoperta.  

È stato anche un tempo in cui abbiamo riscoperto il valore del silenzio?

R.- Il silenzio è senz’altro una delle grandi scoperte di questo momento. Le nostre città, che sono territori rumorosi, luoghi sonori che non tacciono mai, ci hanno offerto all’improvviso un silenzio sconosciuto, di cui abbiamo bisogno, che si mette in dialogo con il nostro cuore.

Come mettere a frutto la lezione che ci sta dando questo tempo di sofferenza?

R.- Penso che oggi sia importante correre il rischio di dare un senso nuovo a vecchie parole. Per esempio la parola “ascolto”. Oggi ne abbiamo un gran bisogno, ma deve essere un ascolto in profondità, senza paure, senza pregiudizi. Serve la capacità di guardare al futuro. Questo è il tempo della comunità, non è il tempo dell'isolamento, della solitudine. È il tempo di pensare cos'è la comunità, di rafforzare, nella misura e nelle forme possibili, il senso della comunità. Nessuno deve sentirsi abbandonato, deve sentirsi solo. Anche con tutte queste misure di distanziamento fisico e sicurezza sanitaria noi dobbiamo vivere la forza della comunità.

In queste settimane il Papa ha pregato più volte per gli artisti. A cosa può servire la bellezza in un tempo in cui si ha paura della morte?

R.- Gli artisti sono maestri necessari per i tempi difficili. Mi viene in mente una piccola poesia di un autore cinese che dice: “Se hai due pani, vendine uno e acquista un giglio”. Noi abbiamo bisogno di pane, senz'altro, e su questo piano c'è tanto da fare adesso per la  ricostruzione dell’economia, del lavoro, della vita delle nostre società. Ma l'uomo ha nel suo cuore anche il bisogno di altro, non di solo pane: un bisogno spirituale che non può essere cancellato. E in questo campo la via della bellezza, la testimonianza degli artisti, è veramente fondamentale.

Può essere la pandemia un'esperienza da cui anche la Chiesa può uscire rinnovata?

R.- Certamente questa esperienza non è indifferente per la Chiesa. Direi che la pandemia è stata una sorta di laboratorio che ci ha permesso l'ascolto di noi stessi, ha risvegliato il bisogno di trovare nuovi linguaggi, di una nuova creatività per rimanere accanto al popolo di Dio. Io considero in particolare due fatti molto importanti che si sono già verificati. Il primo è la valorizzazione della chiesa domestica. È vero che il Concilio Vaticano II definisce così la famiglia, ma tante volte questa bella espressione era rimasta un po' astratta. In queste settimane invece le famiglie cristiane si sono riscoperte concretamente come chiese domestiche, perché nel quartiere spesso l'unica chiesa davvero aperta e in attività era la famiglia. L’altro aspetto è stato il modo disinibito con cui la Chiesa ha utilizzato il digitale. È vero che alcune cose sicuramente non funzionano. La partecipazione reale alla Santa Messa, per esempio, è  insostituibile: abbiamo bisogno del corpo, della presenza, della comunità, della fisicità della Chiesa. Ma altre cose invece funzionano molto bene nel mondo digitale. Penso alle catechesi e a tante forme di preghiera che attraverso i canali digitali sono molto più efficaci perché riuniscono molto più persone.

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23 maggio 2020, 12:11