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Controlli in campi rom a Roma Controlli in campi rom a Roma  

Covid19: dimenticati i rom senza cibo e controlli sanitari

Appello dell’Associazione 21 luglio: ricominciare dagli ultimi delle nostre città per ripartire nel ricostruire il Paese dopo l’epidemia. Intervista al presidente Carlo Stasolla: “C'è la volontà di uscire dai campi, ci sono tante storie positive"

Roberta Gisotti – Città del Vaticano

Nell’emergenza del Covid-19, tra le popolazioni a rischio di contagio e più dimenticate sono i rom e i sinti presenti sul territorio italiano, circa 180 mila,  di cui poco più di 20 mila vivono nei campi, in buona parte cittadini italiani. Di loro si occupano poche associazioni di volontariato, tra queste l’Associazione 21 luglio, sorta da 10 anni, che opera in collaborazione con la Fondazione Migrantes della Cei, dedicata al sostegno di persone bisognose, in difesa dei loro diritti umani, specie dei minori.

Né prevenzione né controlli

Presidente è Carlo Stasolla, da 30 anni impegnato nell’assistenza e per l’integrazione di queste comunità, con una singolare e lunga esperienza di convivenza con i rom, avendo vissuto 14 anni all’interno dei loro campi nelle periferie romane, dove ha poi incontrato la moglie. Oggi c’è molta preoccupazione per queste persone abbandonate a se stesse, denuncia Stasolla, quando sono venute meno le poche attività di sostentamento e non  c’è stata prevenzione per i contagi né ci sono controlli su possibili casi di positività.

Ascolta l'intervista a Carlo Stasolla

R. – Con i vari decreti che hanno bloccato la mobilità e quindi la libertà di circolazione, i bisogni più urgenti sono sicuramente legati all’assenza di risorse economiche dovute alla perdita del lavoro informale, che si pratica nei campi.  Campi, soprattutto quelli romani, che sono delle vere e proprie baraccopoli, dove le persone vivono con piccoli lavori informali che danno un sostentamento giornaliero. La perdita del lavoro ha fatto sì che molte famiglie si siano trovate in uno stato di deprivazione economica che ha portato anche a una deprivazione alimentare. Oltre a questo, segnaliamo con forza il grave sovraffollamento presente in questi insediamenti dove mancano strutture di protezione e dove la presenza dell’amministrazione pubblica è purtroppo assente. Quindi si tratta di una comunità che, pur essendo giovane, di fatto è a forte rischio di emergenza Covid-19 per la mancanza di condizioni igienico-sanitarie adeguate – in alcuni campi manca l’acqua – e per l’assenza di dispositivi di protezione ed anche per una forte carenza dal punto di vista alimentare.

Ci sono quindi rischi di focolai non verificabili dalle autorità sanitarie?

R. – Assolutamente sì, perché nei campi mancano controlli sanitari – l’Amministrazione, appunto, è assente – e perché la popolazione è giovane e quindi è probabile che ci siano casi asintomatici e quindi non rilevati. Questo è un dato, questo è un fatto sul quale bisognerebbe al più presto intervenire, ma malgrado i nostri appelli il governo locale sembra essere sordo a queste importanti sottolineature e a questi appelli, che noi facciamo.

Ma fino ad adesso, avete riscontrato dei casi?

R. – Purtroppo non abbiamo competenze mediche che ci consentano di conoscere dei casi. Sicuramente nelle baraccopoli ci sono situazioni di persone che, per esempio, hanno l’influenza, che hanno la tosse. Il problema è che alcune di queste persone hanno paura di essere accusate di essere ‘untori’ nel campo e quindi nascondono queste patologie. Quindi, non siamo in grado di sapere se poi ci sono delle positività all’interno degli insediamenti.

Voi e altre poche associazioni, come state provvedendo a questa emergenza?

R. – Da subito, noi abbiamo compreso che il grave problema era la carenza di alimenti, soprattutto per quanto riguardava la prima infanzia, quindi i bambini di età tra 0 e tre anni. Per questo ci siamo attivati per il reperimento di risorse che ci consentissero di acquistare beni di prima necessità. Ogni settimana confezioniamo e distribuiamo nei vari campi romani più di 250 pacchi-bebè per il sostentamento settimanale di 250 bambini. Vogliamo fare in modo infatti che questo periodo di emergenza non gravi sulla salute dei bambini più piccoli, che sono tanti e che sono a rischio denutrizione e disidratazione, come in alcune visite abbiamo avuto modo di rilevare.

Lei ha vissuto per 14 anni negli insediamenti della capitale: la sua è stata una scelta di fede. Dall’interno, come ha potuto giudicare la mancata integrazione di queste comunità, e anche il permanere di queste condizioni di così grave discriminazione e degrado sociale?

R. – Sicuramente i rom vogliono includersi, i rom vogliono avere una casa, vogliono avere un lavoro. Non è un caso che su 180 mila rom presenti in Italia, solo 20 mila vivono nei campi, quindi un numero relativamente basso. Purtroppo, sono intrappolati – soprattutto a causa di politiche discriminatorie e non inclusive – in un meccanismo che è come un cane che si morde la coda, per cui da generazione in generazione ci sono famiglie che non riescono - perché non hanno i mezzi, perché non hanno gli strumenti, perché sono stigmatizzati - a compiere percorsi di inclusione. C’è però la volontà di uscire dai campi, ci sono tante storie positive, importanti da sottolineare; occorre però lo sforzo dell’amministrazione, occorre lo sforzo della città per aiutare a includere queste persone che in fondo rappresentano solamente lo 0,04 per cento della popolazione romana e della popolazione nazionale.

Quindi sarebbe ormai una leggenda, quella che accredita il fatto che i rom non vorrebbero staccarsi da questa vita nei campi?

R. – Assolutamente sì: è una leggenda frutto di stereotipi, frutto di pregiudizi. Esistono tanti esempi e tante storie che ci dicono che i giovani soprattutto vogliono uscire da questi ghetti etnici. Ci sono esempi di persone che stanno studiando, che si stanno laureando, che stanno con fatica cercando lavoro e dopo aver trovato lavoro, cercando casa. Occorre una spinta da parte delle istituzioni, occorre una benevolenza da parte della città tutta per compiere questo sforzo. Ogni anno sono sempre meno i rom che vivono nei campi, proprio perché chi ce la fa cerca di includersi. Occorre sostenere e aiutare questo sforzo.

In questo momento, tanto più occorrerebbe sostenere queste comunità …

R. – Esattamente. Anche perché questa crisi sta portando ad una forbice della disuguaglianza, che si va sempre più ampliando e quindi chi già viveva in condizioni di precarietà economica sta sprofondando in una vera e propria povertà assoluta, che non riguarda solamente i rom ma riguarda fasce sempre più ampie della popolazione. E’ da loro, è da queste persone, dagli ultimi delle nostre città, che occorre ricominciare per ripartire, per ricostruire il nostro Paese dopo questa grave crisi.

 

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13 maggio 2020, 12:12