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Un'infermiera attende un paziente all'ingresso del reparto Covid-19 di un Centro a New York Un'infermiera attende un paziente all'ingresso del reparto Covid-19 di un Centro a New York 

Coronavirus: negli Usa oltre centomila vittime

Più morti rispetto ai caduti nelle guerre di Vietnam e Corea. E’ il bilancio delle vittime del coronavirus negli Stati Uniti. Una valutazione della gestione sanitaria americana e delle ripercussioni sociali dell’epidemia nella nostra intervista al teologo e scrittore Massimo Faggioli, professore della Villanova University

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Secondo il New York Times, i morti per coronavirus negli Usa hanno toccato quota centomila. Nei giorni scorsi, il presidente Donald Trump aveva parlato di un numero gonfiato e pertanto sta spingendo per tenere la riunione del G7 a fine giugno, così da inviare un segnale di normalizzazione dopo il coronavirus. Intanto, mentre il Congresso discute sugli ‘ulteriori aiuti’ a seguito della pandemia, i vescovi rammentano con forza che non bisogna abbandonare nessuno e che occorre offrire ai più fragili speranza e assistenza. Ma come viene vissuto il dilagare della pandemia negli Usa? Ai microfoni di Radio Vaticana Italia, Massimo Faggioli, professore del Dipartimento di Teologia e studi religiosi dell'Università di Villanova, a Philadelphia:

Ascolta l'intervista a Massimo Faggioli

R. - Io credo che la pandemia negli Usa venga vissuta in modi diversi a seconda del tipo di popolazione a cui ci si riferisce. Il virus ha colpito in modi differenti a seconda delle zone geografiche, di più nel Nord Est e ha colpito molto di più le popolazioni afroamericane e latinos a reddito basso rispetto a quelle bianche, più conservatrici.

Quindi non c’è un'opinione pubblica unificata su questo tema e, in questo senso, è un po’ lo specchio della situazione del Paese negli ultimi anni. Come valuta nel complesso la risposta dell’amministrazione americana?

R. - Direi che non è stata all’altezza perché ha cambiato messaggio più volte, ha marginalizzato la voce degli esperti e si è affidata a delle tecniche di propaganda che non hanno a che vedere con la cura della popolazione. Si conferma l’incapacità di una empatia, anche perché le popolazioni più colpite sono quelle politicamente più distanti dall’amministrazione, che non lo hanno votato nel 2016, e quindi io credo che ci sia un certo cinismo nel far scontare quello che sta succedendo in alcune regioni del Paese ritenute poco rilevanti per questa amministrazione.

La sanità americana è notoriamente basata su un sistema non a tutti accessibile. In una emergenza come quella che si sta vivendo che paragone si sente di fare con un sistema basato principalmente sul pubblico, come quello italiano o europeo?

R: - E’ un confronto impietoso, in parte perché la sanità americana è buona per chi se lo può permettere, ma anche perché la crisi economica causata dalla pandemia ha creato un ulteriore effetto perverso, cioè che coloro che perdono il lavoro perdono anche l’assicurazione sanitaria che permette l’accesso alle cure. E’ qualcosa che svela la portata abbastanza limitata della riforma di Obama nel 2010, che fu una buona riforma ma che non cambiò la struttura fondamentale del sistema sanitario americano.

Ricordiamo le immagini degli inizi della diffusione dell’epidemia, le immagini delle fosse comuni o quelle degli homeless lasciati a se stessi nelle piazze delle grandi città… ancora esistono situazioni del genere?

R: - Esistono di sicuro in alcune città, per esempio a San Francisco, una città tra le più ricche e più per ricchi, dove nei giorni scorsi si sono viste delle tende con gli homeless, accuratamente distanziate le une dalle altre, nella piazza centrale di fronte al parlamento locale. Il problema dell’America è che, nella sua struttura abitativa, economica e sociale, è fondata da moltissimi anni sul distancing, cioè sul fatto che esistono delle distanze nettissime, anche se di pochi metri o pochi chilometri, tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri… Quindi qui la pandemia, secondo me, ha avuto un effetto amplificato in modo minore o diverso rispetto ad altri Paesi perché l’America è abituata alle tragedie nazionali in cui alcune vite sono da sempre considerate sacrificabili o non importanti come altre. Quindi c’è un rapporto culturalmente diverso con la morte ma anche una struttura sociale per cui la morte degli altri è sempre lontana e il problema è che la politica è in mano a un certo tipo di popolazione che è meno colpita adesso e quindi si vede meno rispetto a Paesi come l’Italia o a quelli dell’America latina.

In questo contesto la rete dell’associazionismo, sia laico che religioso, è in grado di venire incontro alle urgenze sanitarie e alle ripercussioni sociali della pandemia?

R: - Ci sta sicuramente provando. E’ noto che negli Usa il sistema dell’associazionismo e delle Chiese è essenziale per colmare un sistema di assistenza che è pieno di lacune. Il fatto è che qui, diversamente che in Italia oppure in Germania, il sistema dell’associazionismo cattolico è interamente affidato al volontariato e alle forze del mercato, diciamo così, cioè alla capacità di raccogliere fondi, fare sottoscrizioni etc. mentre invece in altri Paesi il sistema della cura sociale è più integrato con lo Stato e c’è più collaborazione. Qui negli Stati Uniti il governo e gli Stati si affidano al ruolo suppletivo ma non c’è - anche per una impossibilità costituzionale in virtù di un sistema di separazione Stato-Chiesa - possibilità di collaborare di più. Ne deriva che, per questo grandissimo mondo del volontariato, c’è molto di più da fare, così come per le Chiese e le parrocchie: si deve fare molto di più con molto di meno. E’ un sistema più esposto ai venti delle crisi economiche e sociali e in particolare ai venti di questa grande crisi che è appena cominciata, io temo.

In Italia sono riprese le celebrazioni eucaristiche con il popolo. Negli Usa quale è la situazione sotto questo profilo? Come si stanno confrontando con le limitazioni i sacerdoti e i loro collaboratori?

R: - Gli Usa sono un Paese molto vasto e non c’è una data unica. Alcuni Stati hanno già ripreso. In Pennsylvania e nella diocesi di Philadelphia le parrocchie sono invitate a riprendere il 5 giugno ma la cosa è affidata al giudizio delle singole parrocchie. Io faccio parte della task force della mia parrocchia e immaginare la ripresa delle liturgie e della scuola parrocchiale, peraltro molto grande, è una operazione molto complessa. C’è da attendersi durante giugno una serie di aperture differenziate. In ogni parrocchia credo che sarà avviata una valutazione su come riaprire, piuttosto che semplicemente sul fatto se riaprire oppure no. Varia da Stato a Stato. C’è una sana cautela, direi. E bisognerà vedere se ci sarà un’oscillazione nel corso di questa estate, che secondo me sarà tutta da inventare.

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28 maggio 2020, 13:15