Profughi siriani accolti, sostenuti, ‘risorti’

A quasi nove anni dall’inizio della guerra in Siria, le testimonianze di chi può tornare a sognare un futuro dignitoso. Due giovani siriani raccontano la loro fuga e l’approdo in Italia, tre anni fa, grazie ai corridoi umanitari e all’aiuto messo in campo dalla Comunità di Sant’Egidio

Antonella Palermo e Adriana Masotti - Città del Vaticano

Il prossimo 15 marzo saranno 9 anni: da tanto infatti la popolazione della Siria sta vivendo sulla propria pelle una crisi che con il tempo si è fatta sempre più grave. Tutto ha avuto inizio il 15 marzo 2011 con le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo centrale, nel contesto della primavera araba. Le proteste, duramente represse, avevano l'obiettivo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad. Poi il radicalizzarsi degli scontri sfociati in una guerra civile. A causa della posizione strategica della Siria, dei suoi legami internazionali e del perdurare del conflitto, la crisi ha coinvolto i Paesi confinanti, ha attirato jihadisti e potenze straniere. 

Il cessate il fuoco ad Idlib

In Siria si muore ancora o dalla Siria si deve scappare alla ricerca di un luogo più sicuro. Succede in particolare a Idlib, nella regione nord occidentale del Paese, l’ultimo territorio ancora in mano agli oppositori del presidente al-Assad. Da  venerdì scorso qui è in vigore il cessate il fuoco concordato a Mosca dal presidente turco Erdogan e dall'omologo russo Putin e la tregua sembra per ora reggere. La situazione profughi, tuttavia, sta diventando sempre più complessa, con circa un milione di civili sfollati di cui l'80% è costituito da donne e bambini. 

La crisi umanitaria in Siria

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sono oltre 380 mila le persone rimaste uccise durante questi anni di guerra in Siria. Le Nazioni Unite parlano di oltre 500 mila. Il numero degli sfollati interni ha superato i 6,5 milioni; altrettanti sono i profughi nei Paesi limitrofi. Le città siriane appaiono oggi semi deserte, distrutte le case, le scuole, i siti archeologici, i luoghi di culto e gli ospedali con danni per miliardi di dollari. Oltre mezzo milione, infine, le persone scomparse, per lo più oppositori del governo.

Due testimonianze che danno speranza

Grazie all'iniziativa dei corridoi umanitari che ha preso il via il 15 dicembre 2015  a seguito della firma di un Protocollo d’intesa tra la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e il governo, alcune migliaia di profughi provenienti dalla Siria hanno potuto raggiungere la Penisola e iniziare un cammino di integrazione nelle comunità che li hanno accolti. Ne sono un esempio i due giovani incontrati a Roma e che al microfono di Radio Vaticana hanno raccontato la loro esperienza e le loro speranze: 

Ascolta le interviste ai due giovani siriani e ad Anna Marchei

L’emergenza sanitaria e l’aiuto ai vulnerabili

Non ci possiamo stringere le mani, di questi tempi, ma ci guardiamo negli occhi e ascoltiamo. In quella che era la lavanderia dell’ospedale S. Gallicano, a Trastevere - dove ha sede la Comunità di Sant’Egidio  - c’è ora una scuola dove i profughi possono imparare la lingua italiana, considerata la ‘chiave d’oro’ per l’integrazione.

La struttura della scuola è circolare e si diramano diverse aule: una metafora della vita, – ci dice Anna Marchei, responsabile per i percorsi di integrazione degli ospiti dei corridoi umanitari accolti a Roma e provincia - nella misura in cui una persona trova un centro, ritrova il senso di orientamento. C’è anche un ‘ulivo della pace’ che è stato regalato da chi, due anni fa, ha studiato qui per diventare – grazie a una collaborazione con l’Università per Stranieri a Reggio Calabria - mediatore interculturale. “E’ una specie di resurrezione per loro”, spiega, ricordando il benvenuto che all’aeroporto di Fiumicino si fa ad ogni nuovo arrivo dei profughi che mettono piede sul suolo italiano. “Cerchiamo di far sperimentare che la condizione di povertà e di guerra non determinerà per sempre la loro vita. In questo periodo di chiusura delle attività didattiche le difficoltà si sommano. A noi piace incontrarci, ma è chiaro che dobbiamo adeguarci. Non abbiamo sospeso il supporto alle persone, il centro di aiuto che stiamo rimodulando, dando istruzione sull’igiene. La distribuzione di generi alimentari a chi ne ha bisogno con poche persone per volta. I beneficiari sono soprattutto famiglie numerose. Non vogliamo aggiungere ulteriori rischi. I nostri giovani volontari, che normalmente vanno a trovare gli anziani soli, hanno preparato per loro video, lettere, per non fermare l’accompagnamento”.

In Siria, dove mancano i diritti di base

“Mi sento quasi in colpa a vivere finalmente una vita felice qua, mentre penso a mia sorella che ancora è in Siria con i suoi figli. Penso che lei sta ancora soffrendo per tutto, e soffro pure io da qua”. Maya Zahida, di Damasco, 18 anni. Vive con la famiglia di origine in una casa concessa in comodato d’uso, nelle vicinanze di Roma. Ha un sorriso bellissimo e trasmette tanta vitalità. Così si racconta: “I diritti di base per la vita di un essere umano loro non ce l’hanno. I primi anni abbiamo resistito. Abitavamo in un villaggio. Era difficile, ma là ci sentivamo abbastanza al riparo perché i luoghi dove il conflitto era più duro erano le città. Dopo quattro anni la situazione è diventata molto, molto difficile. Ho due fratelli che, quando eravamo là, hanno deciso di scappare perché volevano evitare di ripetere il servizio militare. Con molta sofferenza e apprensione sono andati verso la Turchia. Io non riesco a descrivere il loro viaggio, per come loro me lo hanno raccontato. Ora, uno vive in Turchia e l’altro è riuscito a venire in Italia, grazie ai corridoi umanitari. Io sono venuta qui proprio grazie a lui”.

Una guerra che mette tutti contro tutti

“Mio padre ormai aveva superato l’età per essere richiamato alle armi. Però continuavano i bombardamenti, la vita era brutta, c’era la fame, mancanza di lavoro, di acqua… non c’era vita, insomma. Avevamo bisogno di andare via”, racconta Maya. “Fortunatamente, siamo riusciti ad uscire e siamo rimasti in Libano per un mese circa. Quando eravamo ancora nel villaggio, non ci rendevamo nemmeno ben conto di chi era con chi e contro chi. Noi eravamo neutri, si può dire. Una sera, i conflitti diventarono molto pericolosi, dall’alto del villaggio siamo scesi in tanti verso il basso, a casa di mio zio. Eravamo troppi in casa, i supermercati avevano finito le scorte, ci sentivamo come imprigionati. Ci siamo messi in cammino accerchiati dalle montagne, una persona è stata uccisa. Siamo arrivati al confine, eravamo come animali. Bisognava conoscere qualcuno dall’altra parte per attraversare. Mio zio conosceva. Una ventina di giorni di sosta. Non volevamo più tornare indietro, ormai. Siamo entrati in contatto con Sant’Egidio e siamo riusciti a venire qua”.

Creare ponti

“Penso che non ci debbano essere muri”, dice Maya pensando alle migliaia di profughi che in questi giorni stanno abbandonando il Paese e non trovano pace. “Avrebbero potuto rimanere là. Se lo fanno è perché non ce la fanno più. Ora vivo una vita molto bella, se penso a chi vive nei campi profughi, dico che la mia vita ora è eccellente. Io ora posso pensare al mio futuro, alle cose che mi piacciono. Invece chi vive ancora in Siria non può nemmeno permettersi di pensare al proprio futuro”.

Trovare fiducia nella preghiera

Mahfoud Aldaher, di Maharda, è nato in un villaggio tra Hamah e Idlib, 23mila abitanti, tutti cristiani. Lui ora paga l’affitto per una stanza in una abitazione con una signora anziana e lavora in un punto vendita di una grande catena di abbigliamento. “Tantissimi gruppi hanno tentato di entrare nella nostra città per distruggerla e tanti miei coetanei hanno provato a difenderla con le armi e sono morti in troppi”, così ricorda gli anni passati nel suo Paese. “Io andavo all’università, studiavo ingegneria meccanica e con un amico avevo un negozio di cellulari. Purtroppo anche il nostro negozio fu colpito da un razzo. La mia famiglia era molto preoccupata per la mia vita e decise di mandarmi in Libano. Ogni giorno perdevo qualcuno di quelli che conoscevo. Ero tanto arrabbiato. Noi vivevamo in città come una grande famiglia, anche io volevo fare qualcosa ma la mia famiglia non mi permetteva. Mi hanno messo una macchina e mi hanno mandato in Libano dove mi sono ritrovato letteralmente da solo. All’inizio volevo tornare dai miei, loro mi dicevano di aspettare. Poi, mi sono reso conto che ogni anno la situazione in Siria si complicava. Si è sbloccata per me quando ho conosciuto la Comunità di S. Egidio, grazie a loro sono venuto qua”. Cosa lo ha aiutato di più a mantenere fiducia e nervi saldi? “La preghiera. Veramente sono felice adesso e lo sono ancora di più perché ora faccio parte della Comunità. Mi fa sentire in qualche modo utile per gli altri. Mi rende tanto triste sentire che le persone hanno paura dello straniero”.

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11 marzo 2020, 13:50