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Covid-19, dentro al cuore della zona rossa

La vita degli operatori sanitari all'interno dell'Ospedale Gavezzani di Bergamo, il sostegno reciproco e l'appoggio dei cappellani, l'aiuto di associazioni locali e di semplici cittadini, tutti determinati a vincere, insieme, l'estenuante lotta. La testimonianza del direttore sanitario

Emanuela Campanile - Città del Vaticano 

Non servono troppe parole per introdurre la testimonianza di Massimo Castoldi, direttore sanitario dell'Ospedale Gavezzani di Bergamo. E' sufficiente specificare dove si trovi questa struttura per capire in quale girone dantesco il professore con "i suoi ragazzi" -  medici e infemieri -  stiano lottano giorno e notte:

Ascolta l'intervista al dottor Castoldi

R.- L'ospedale ormai è in piena saturazione cioè, noi riusciamo a dimettere qualcuno che altrettanti sono già al Pronto Soccorso che premono per poter entrare. E’ un equilibrio precario che rischia quotidianamente di saltare. La necessità più imponente che abbiamo ora è quelle per i pazienti ad alta intensità di cura. Abbiamo due terapie Intensive  e abbiamo trasformato un altro reparto in semi intensiva dove la maggior parte dei pazienti sono in ventilazione. Ecco, anche questo sembra non bastare.

Quante ore al giorno lavorate?

R.- Facciamo una copertura ordinaria con quattro medici per reparto dalle 8 alle 21. Le prime due settimane abbiamo lavorato tutti 12-14 ore al giorno perché era quasi impossibile riuscire a organizzarci. Poi, progressivamente, ci siamo dati una parvenza di organizzazione con i turni. Il problema è che adesso anche questi turni stanno cedendo e quindi i medici dovranno lavorare di più  perché cominciano a esserci le prime malattie degli operatori. Questo scarnifica un po' alla volta l'organico...

Si stanno ammalando i medici, gli inferimieri…

R. - Sì, sì. Noi abbiamo da subito utilizzato tutti i dispositivi che la normativa prevedeva, abbiamo seguito le indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, usato i mezzi di tutela dei lavoratori, lo abbiamo fatto tutti. Ma è evidente che in un ospedale che è tutto Covid, le vie di contaminazione risultano poi difficilissime da circoscrivere.

E in tutto questo, non vi viene a mancare l’aiuto dei cittadini…

R. - Da subito. Prima erano telefonate sparute, poi sono aumentate, per cui abbiamo messo sul sito della nostra Fondazione Humanitas la pagina “Dona ora per l'emergenza Covid”. Lo abbiamo fatto perché ci siamo accorti che la gente vuole partecipare anche solo con una donazione ma anche facendo arrivare, per esempio, le pizze agli infermieri, portando mascherine. Questo perché si sentono vicino a chi è sul fronte e ci fa molto piacere. Poi c’è un’iniziativa che abbiamo pensato insieme alla TS di Bergamo, alla Caritas bergamasca e alla Confindustria di Bergamo. Si tratta di un albergo per le persone che, finito il periodo di cura, devono andare a casa in isolamento. Non tutte le case sono idonee a ricevere una persona che deve vivere isolata, e allora questo albergo - pagato con il  contributo di questo comitato che si è costituito e che si chiama “Abitare la cura” – permette un alloggio dove può stare tranquillo senza dover pesare sui precari equilibri familiari e domestici. Poi c’è la Curia che ha messo a disposizione appartamenti e case per i giovani specializzandi che arrivano dall’università. C’è anche questo tipo di solidarietà che sta funzionando.

In situazioni estreme come quella attuale, e ai ritmi e allo stress a cui siete sottoposti, come riuscite a farvi forza?

R.- Allora, mille persone ruotano intorno a questo ospedale. Se devo essere sincero, potrei contare sulle dita di una mano quelli che non si sono resi conto della gravità della situazione. Ma gli altri novecentonovantacinque sono talmente sul pezzo, talmente coinvolti emotivamente, che ogni gruppo di lavoro si autosostiene, chiacchiera discute e si alimenta. Se un giorno uno piange, l'altro lo sostiene perché sa che il giorno dopo magari tocca a lui. Se un giorno sono depresso, perché alcuni di noi si sono ammalati, il giorno dopo avendo recuperato però un po’ di energia, riesco  ad aiutare gli altri. E’ una traccia indelebile che rimarrà. E se da una parte ci sta unendo, dall'altro ci propone un paradosso.

In che senso?

R. - Al cittadino normale ormai è chiesto di essere prossimo stando lontano. Le misure di allontanamento sono misure di amore per l'altro. In ospedale, invece, per noi operatori si ripropone più che mai il tabù, la paura della morte: andare ad assistere una persona malata è una paura. E allora la vicinanza e il fatto che tutti siamo sul pezzo fa sì che nessuno si senta solo e abbandonato in questa lotta. Abbiamo scoperto che anche chi non crede, ogni tanto una preghiera la fa. C’è in effetti questa sensazione di bisogno di un supporto anche dello spirito. Tra noi, fino alla settimana scorsa, avevamo un sacerdote che ci seguiva, don Ennio. Ha ottantadue anni ed è una roccia. Ora è lontano da qui per il rischio di contagio ma poi tornerà. Adesso abbiamo un nuovo parroco di Bergamo che ha detto “ma se io che ho cinquantaquattro anni non sono al fianco dei malati, che cosa ci sto a fare?”. Quindi è qua giorno e notte anche lui per assistere i malati e in più, siccome è un chimico, ci ha regalato un po' di idrogel alcolico per le mani che ha prodotto lui. E questo sostegno dello spirito, fatto con una testimonianza diretta, è quello di cui abbiamo bisogno. 

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24 marzo 2020, 15:00