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Don Voltaggio: il Cantico dei Cantici, quando l’amore è “al di là del versetto”

Cifra essenziale del Cantico dei Cantici non è il possesso ma il desiderio. Così il biblista don Francesco Giosuè Voltaggio, che nell'intervista spiega perché il significato letterale e allegorico non sono in contrapposizione ma in stretta continuità

Debora Donnini – Città del Vaticano

Si è parlato molto, ultimamente, del Cantico dei Cantici a partire dall’esibizione di Roberto Benigni a Sanremo. Effettivamente, incuriosisce la presenza del Cantico dei Cantici nella Bibbia ebraica e cristiana. Ma è vero che il Cantico si ispira ad alcuni poemi antichi della Mesopotamia? E quando si può calcolare che sia stato scritto? La ricchezza di questo testo emerge con tutta la sua decisione nell’intervista a don Francesco Giosuè Voltaggio, biblista e professore di Archeologia e Sacra Scrittura in Terra Santa, anche rettore del Seminario Redemptoris Mater di Galilea.

R. - Lo sfondo letterario del Cantico va ricercato nei canti d’amore egiziani e nella poesia nuziale mesopotamica in cui si esaltava la bellezza degli sposi, chiamati “re” e “regina”. Si sono anche notate le somiglianze tra il Cantico dei Cantici e un genere poetico arabo, chiamato wasf, in cui si descrive la bellezza degli sposi tramite la descrizione poetica del loro corpo. Tuttavia ci sono anche decisive novità nel Cantico. Per dare solo un esempio, a differenza dei canti d'amore egiziani che sono caratterizzati dal monologo dei protagonisti, il Cantico è un vero dialogo tra l’amato e l’amata, dove interviene anche un coro. Quindi, la rivelazione biblica assume l'umanità - e anche la letteratura umana - ma la trasfigura, come è il caso, appunto, del Cantico che tratta dell'amore umano in quanto umano ma che nel contempo lo trasfigura. Riguardo alla datazione, ancora c'è una discussione tra gli studiosi. Si oscilla tra il X e il I secolo A.C. La ricerca esegetica attuale propende per una datazione alla fine del dominio tolemaico in Palestina, cioè nella prima metà del III secolo A.C. È molto interessante, poi, che il testo viene attribuito a Salomone. Questo è di importanza fondamentale per l’interpretazione del Cantico, perché Salomone significa il Sapiente per eccellenza, e poi nella tradizione ebraica e cristiana è una figura del Messia.

Il Cantico dei Cantici è fondamentalmente un canto d'amore, di passione ma non un amore fuggevole: si parla di uno sposo e di una sposa. E la caratteristica che forse rende l'amore così sublime è proprio che si tratti di un amore di elezione, di scelta, un amore che come dice il Cantico è “forte come la morte”. Secondo lei, c'è questo tratto dell'amore di elezione che pesa fortemente nel Cantico?

R. - Molto. Il nome Cantico dei Cantici avendo in ebraico il valore di un superlativo può essere tradotto anche con il “Cantico più bello”, il “Cantico sublime”. L'amore umano è una realtà troppo sublime e profonda per essere descritta da parole umane e per questo si ricorre alla poesia. Quindi, sfuggendo ad ogni schema, l'amore si situa nell'ambito dell’estatico, del gratuito, del divino, cioè l'amore del Cantico dei Cantici non è meramente passionale o godereccio, ma è fatto di relazione e di distanza, di vicinanza e di distacco, di parole e di silenzio, di vita e di morte, eccetera. Ad esempio, nell'amore tra i due amati del Cantico ci sono due notti, momenti in cui l’amato e l'amata si perdono. Ma l'amore umano del Cantico è un amore forte come la morte, una fiamma del Signore. Questo versetto è il culmine del libro e in ebraico si sente proprio il suono della lettera shin che si ripete, del fuoco, cioè l'amore ha il “suono” del fuoco. Questo è l'unico versetto del Cantico dove in modo velato si trova il nome del Signore. Si tratta quindi di un amore di elezione, che viene da Dio stesso, che è - secondo quello che dice la Scrittura - un fuoco divoratore e questo amore umano tra gli sposi è un riflesso di quell’amore appassionato che Dio ha per l'umanità, perché Dio è lo sposo e l'umanità è la sposa, in una lettura spirituale o allegorica.

Rabbi Akiva, vissuto nel primo secolo dell'era cristiana e considerato uno dei fondatori dell'ebraismo rabbinico, sosteneva la canonicità del libro e diceva: “Nulla è degno nel mondo intero come il giorno in cui Cantico dei Cantici è stato donato a Israele, perché tutti gli scritti della Bibbia sono santi ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi”. Ecco, ci sono state difficoltà ad inserire nel canone della Bibbia ebraica e di quella cristiana il Cantico dei Cantici? E quando è stato accolto?

R. - Alla fine del primo secolo dell'era cristiana, c’è stata in effetti una discussione tra i rabbini, all'interno dell'ebraismo, se questo Cantico dovesse entrare nel canone, cioè se fosse da considerare un libro santo. Questa discussione terminò con l'opinione decisiva di Rabbi Akiva che convinse tutti. La tradizione ebraica evidenzia come ci fu una riflessione, una discussione profonda tra i maestri. Da quel momento, nessuno ha avuto dubbi tra gli ebrei. Tra i primi cristiani, poi, nella Chiesa primitiva, il libro fu accolto da subito come ispirato da Dio. Già nel 180, Melitone di Sardi che si recò in Oriente per conoscere il canone della Bibbia, elenca anche il Cantico dei Cantici tra i libri santi e in effetti questo libro ha sempre goduto di una grande stima e diffusione nell’ebraismo, negli scritti dei Padri. Poi, la Chiesa ha tratto anche dal Cantico la mistagogia, ovvero la spiegazione dei riti battesimali, e fin da Origene il Cantico è stato commentato dai Padri - basti pensare al meraviglioso commentario di Gregorio di Nissa - e poi ha avuto un ruolo fondamentale nella mistica cristiana. Sono molto contento che è stata ricordata la frase di Rabbi Akiva, perché in questa espressione si accosta il Cantico dei Cantici al Santo dei Santi, che è il luogo più Santo per Israele, in cui nessuno poteva entrare se non il Sommo Sacerdote una volta l'anno e dove Dio era presente proprio perché invisibile, perché non si vedeva. Così, analogamente, nel Cantico, Dio non è nominato, se non forse una volta e in modo velato. Ma chi entra in questo libro sa che Dio vi è presente ovunque. Per questo la tradizione ebraica dice che davanti alla porta del libro del Cantico, ci sono molte chiavi: non è facile trovare la chiave per aprire la porta e questo spiega tante interpretazioni inesatte… Non a caso nella liturgia ebraica il Cantico viene letto nella festa di Pasqua. Una cosa molto interessante è che, in consonanza con Rabbi Akiva, Origene che è un grande interprete cristiano dichiara: “Beato chi penetra nel Santo, ma più Beato chi penetra nel Santo dei Santi. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma molto più Beato chi canta il Cantico dei Cantici”.

Quindi, diciamo così, l'elemento passionale, umano, non ha creato problemi all'interno del Cristianesimo?

No, non ha creato alcun problema perché accolto come Parola di Dio, il Cantico è nella sua interezza, come diciamo in ebraico, un mashal (questa parola ebraica vuol dire “parabola”, “comparazione”, “enigma”) che, descrivendo l'amore tra due amanti, canta l'amore fra Dio e la sua Sposa, Israele, e ancor più, nell’interpretazione cristiana, fra Dio e l’anima di ogni credente.

Veniamo alla questione esegetica, all’importanza del significato allegorico di questo testo, quello dell'amore fra Israele e Dio, l’amore fra l’anima e Dio, oltre a quello più corporeo dell'amore fra un uomo e una donna, che poi in realtà ha una forte connotazione proprio quando ha una dimensione spirituale. Quindi, in realtà sembra esserci tutta una continuità e non una separazione…

R. – Senza dubbio. L’interpretazione letterale ha una grande importanza nella nostra tradizione esegetica, non si può mai eliminare. Tuttavia la lettura spirituale, simbolica e anche allegorica del Cantico non va considerata semplicemente come giustapposta a quella letterale. Il popolo ebraico vede in Dio l’amato, in Israele l'amata. In effetti nel Cantico ci sono tanti riferimenti geografici alla Terra Santa e posso fare un esempio: il latte e miele che sono sotto la lingua della sposa. Chi non conosce l'espressione “latte e miele” nell'Antico Testamento, può pensare a una mera allusione erotica. In realtà, l’espressione fa riferimento anche alla Terra dove scorre “latte e miele”, alla Terra promessa. Per questo diceva Origene che il Cantico è un libro per iniziati. Sulla scia della tradizione ebraica, i Padri e gli interpreti cristiani hanno visto nell’amato Dio o Cristo e nell’amata, la Chiesa e anche la singola anima del credente. Non è detto che questo fosse chiaro ed evidente all'autore o agli autori del Cantico dei Cantici, ma il punto centrale è questo: il testo ha spesso un senso più profondo di quello inteso dall'autore umano. Questa realtà che avviene in ogni tipo di creazione artistica, si verifica ancora di più nei testi ispirati da Dio. Voglio dire che pur cercando il senso voluto dall'autore umano, si deve riconoscere sempre il carattere divino e quindi misterico del testo biblico, cioè vuol dire che dovremmo sempre cercare, come diceva il grande filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas, “l'al di là del versetto”. Quindi, sebbene vada sempre rispettata l'intenzione dell'autore umano, si deve riconoscere che l'unica ragione per cui il Cantico è entrato nel canone ebraico e cristiano è proprio la sua interpretazione simbolica e allegorica, che non può essere quindi mai disconosciuta. E poi non va dimenticato che all’esegesi simbolico-allegorica non mancano appigli nel testo. Ad esempio, i profumi e gli aromi dello sposo richiamano quelli del Tempio. Le stanze del re dove la sposa chiede di essere introdotta evocano le camere interne del Tempio del Santo dei Santi. L'amata che sale dal deserto allude all'uscita di Israele dall’Egitto, che si esprime in ebraico con l’espressione “salire” dall’Egitto. Il Cantico bisogna connetterlo alla realtà del cosiddetto “Sacramento primordiale” voluto fin dal principio, cioè l'amore sponsale tra uomo e donna. Quindi, l'amore umano con il “linguaggio del corpo”, tanto presente nel Cantico, e la sessualità, non sono un ostacolo ma un segno visibile dell'Alleanza d'amore tra Dio e l'uomo.

Dal punto di vista della fede, come si può interpretare questo perdersi e ritrovarsi? Forse fa riferimento anche a un rapporto con Dio, che a volte è fatto di combattimenti, di assenze, di incontri?

Qui arriviamo al punto fondamentale. Ciò che è centrale nel Cantico non è il possesso, la consumazione dell'amore, ma il desiderio dei due sposi. Questo penso sia il punto centrale spesso trascurato da chi legge il Cantico come un canto esclusivamente erotico. Basta vedere come finisce il libro. Non finisce con il possesso. Lo sposo canta alla sposa: “Tu che abiti nei giardini, i compagni ascoltano la tua voce, fammela sentire”. Non a caso il giardino è lo scenario privilegiato del Cantico perché richiama l’Eden e qui lo sposo non solo è distante dalla sposa, alla fine del libro, ma non sente nemmeno la sua voce, a differenza dei suoi compagni, e desidera ascoltarla. E le ultime parole del Cantico sono quelle della sposa che dice: “Fuggi, amato mio, simile a gazzella o a cerbiatto, sopra i molti degli aromi”. Si tratta di un testo direi misterico e anche mistico. Si trova, nel Cantico, il paradosso del rapporto tra gli amati: un cercarsi e un trovarsi, un abbracciarsi per poi perdersi di nuovo, cioè è lo stesso paradosso della storia della salvezza. Ad esempio, nel Santo dei Santi, secondo l'Antico Testamento, Dio è presente ma non si può “inscatolare in una stanza”, Dio è sempre presente ma, diciamo così, spesso non lo vediamo, non riusciamo a scorgerlo …questa è tutta la storia della salvezza. Per questo il libro della Genesi si apre con Adamo ed Eva che in un giardino perdono l'amato cioè la comunione con Dio, e perdendo l’amato, perdono l'armonia con sé stessi e con il mondo. Ecco perché alla fine del Vangelo, nella Nuova Alleanza, Gesù si consegna in un giardino, si dice che il Golgota e il Santo Sepolcro sono in un giardino e, poi, sempre in un giardino l’amato, Gesù Risorto, si fa ritrovare da Maria Maddalena e quindi da ognuno di noi.

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05 marzo 2020, 08:00