Gerusalemme Gerusalemme

I vescovi alla scuola delle comboniane a Betania in Terra Santa

Hanno lasciato oggi Betania, vicino Gerusalemme, i vescovi del Coordinamento della Terra Santa, in pellegrinaggio fino al 16 gennaio tra Gaza, Ramallah e Gerusalemme Est

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

La tappa a Betania dei vescovi dell’HLC (Holy Land Coordination) li ha visti ospiti della scuola delle suore comboniane divenuta famosa alla fine del 2009, quando il muro costruito dalle autorità israeliane finì col separare la scuola, a Gerusalemme Est e sotto il controllo israeliano, dal villaggio palestinese da cui arrivavano gli studenti, allora una cinquantina, provenienti dai villaggi attorno ad al-Azariya, Betania in arabo. Per evitare che perdessero le lezioni, le suore condussero una battaglia che portò alla costruzione di una piccola porta nel muro, attraverso la quale i bambini erano autorizzati a passare due volte al giorno, per l’inizio e per la fine della scuola. Soltanto un anno dopo anche quella porticina fu chiusa dalle autorità. La scuola si trova tra due fuochi, da un lato Israele e dall’altro i palestinesi: è la triste considerazione di suor Alicia Vacas Moro, provinciale per il Medio Oriente delle comboniane e responsabile della comunità di Betania, che non rinuncia a combattere diffidenza e inimicizia create dal muro.

Ascolta l'intervista a suor Alicia Vacas Moro

R. - Purtroppo avremmo voluto presentare ai vescovi una situazione migliore, avremmo voluto esseri capaci di dire che la situazione è migliorata, che ci sono possibilità e speranze, invece in questi dieci anni la situazione è peggiorata. Intanto il muro si è chiuso. Noi aspettavamo di riuscire ad avere un check point, un controllo militare, qualsiasi passaggio, cosa  che non è avvenuta in tutti questi anni. Abbiamo perso il contatto con la realtà dall’altra parte del muro, con quello che è sempre stato il nostro villaggio, la nostra gente, la nostra comunità, cristiana e non.  Qualcosa di bello che è accaduto in questi ultimi tempi è che due sorelle della comunità si sono trasferite dall’altra parte e adesso la comunità ha una parte anche di là, per garantire quella presenza delle suore che era venuta a mancare. Sono loro che rappresentano la comunità e che portano anche il nostro messaggio lì, anche perché non vogliamo che quelli che sono stati i nostri vicini per 40-50 anni pensino che abbiamo scelto di andare noi via, non vogliamo trovarci in questa situazione, non vogliamo che siano gli altri, la politica o le circostanze a decidere come noi stiamo in questa storia.

Il timore, lo hanno espresso anche i vescovi dell’Hcl che sono stati da voi, è che i bambini, una volta cresciuti, diventino i primi nemici di questo muro, un muro che genera solo instabilità e odio…

R. – Questa è anche la nostra preoccupazione, perché ormai sono diversi anni che il muro è chiuso, c'è già una generazione di adolescenti cresciuta senza un contatto l’uno con l’altro, senza avere dei volti davanti a cui fare riferimento quando si parla ‘dell’altro’, questo è molto pericoloso perché dà l’occasione di addossare all’altro tutte le nostre paure, le nostre paranoie, tutta la nostra rabbia. Il muro, probabilmente, ha portato una pace finta, a breve termine, ma non sta creando una situazione di prospettiva di pace per il futuro.

Suor Alicia, ma oggi i ragazzi non riescono in alcun modo a venire da voi?

R. – I bambini dell’asilo riescono ad ottenere il permesso per passare, però questo poi diventa molto complicato, molto difficile, perché devono fare una ventina di chilometri per arrivare, per attraversare il checkpoint; i palestinesi non possono usare le macchine, devono per forza scendere, attraversare i checkpoint a piedi per tutti i controlli, poi prendere un altro pullman dall'altra parte. Ci hanno provato per un anno o due, le famiglie hanno tenuto duro e hanno cercato di mandare comunque i bambini alla scuola materna, ma sono bambini troppo piccoli per sopportare tutto questo trambusto, per cui alla fine i bambini che abbiamo a scuola sono sempre quelli dei quartieri arabi palestinesi attorno a noi. Ma sono quelli della parte di Gerusalemme, non sono più quelli che sono rimasti dall’altra parte.

Dall’inizio, sin da quando le autorità israeliane hanno annunciato questa decisione, voi vi siete ribellate, avete cercato di fare in modo che tutto questo non accadesse. State ancora cercando di lottare per aiutare questi ragazzi o avete totalmente perso la speranza?

R. – Attorno a casa nostra, seguendo il perimetro del nostro giardino, della nostra proprietà, abbiamo su tre lati un muro alto 8 metri di cemento armato; questa è una realtà difficile da sconfiggere. Non possiamo illuderci e pensare che, un giorno o l’altro, diventerà un prato. Per noi lo stare qui è una missione ed è anche un ribellarsi, un tentare di aprire delle brecce, di aprire delle feritoie, di aprire degli spazi di incontro. Penso che parte del nostro servizio qui sia proprio quello di cercare di raggiungere le persone più sensibili di entrambi i lati del muro e metterle insieme, creare uno spazio dove ci si possa incontrare e lavorare insieme. Ed è ciò che noi facciamo: lavoriamo insieme ad amici israeliani e palestinesi su diversi fronti, con i beduini, con i rifugiati. Penso che questo faccia parte del nostro ribellarci, del nostro stare qua senza accettare fino in fondo questo muro.

Suor Alicia, ma voi vivete direttamente anche gli scontri che si manifestano tra israeliani e palestinesi?

R. – Purtroppo sì, perché la zona dove viviamo è una zona calda, una zona che spesso è testimone di tensioni, di dimostrazioni, di provocazione da una parte e dall’altra, di risposte sproporzionate dall’altra parte. La zona dove viviamo è anche una zona dove il muro è in qualche modo vulnerabile, nel senso che è facile da saltare, io sinceramente non so come sia possibile, visto che è alto 8 metri, però i giovani lo saltano proprio nella nostra proprietà e usano il nostro giardino per entrare a Gerusalemme, visto che non riescono ad avere permessi per farlo regolarmente e legalmente, per così dire. Per cui, anche la nostra casa, il nostro giardino, sono spesso testimoni di queste scene, in cui i giovani saltano per andare al lavoro, per andare in moschea, per andare in ospedale, per altre mille ragioni, ci sono poi anche i soldati che usano il nostro giardino per intrappolarli, per prenderli. Per cui, sì, spesso si vivono situazioni di tensione, di scontri, di reazioni tipo intifada, con i lanci di sassi e con gli altri che rispondono con i gas lacrimogeni. Questo fa parte del vivere su di una frontiera, su di una frontiera delicata e dolorosa.

 

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14 gennaio 2020, 16:31