I controlli militari intorno ai pozzi petroliferi in Iraq I controlli militari intorno ai pozzi petroliferi in Iraq  

Iraq: il conflitto richiede una soluzione diplomatica. Emergency in difesa dei civili

Mentre si parla di geopolitica, di strategie, di alleanze, si ignorano le conseguenze sulla popolazione civile dell’Iraq, già devastato dalla violenza. Emergency chiede alla diplomazia internazionale di intervenire per fermare l’aggravarsi del conflitto nel paese

Maria Pilar Cappelli – Città del Vaticano

L’organizzazione umanitaria Emergency, impegnata nel nord dell’Iraq dal 1995, esprime preoccupazione per le conseguenze che la spirale di violenza, innescata dalla crisi tra Washington e Teheran, può avere sulla popolazione civile. Rossella Miccio, presidente di Emergency, chiede che il dialogo torni ad essere protagonista. Attualmente Emergency, operativo con le proprie strutture nella regione, assiste decine di migliaia di persone mutilate e ferite:

Ascolta l’intervista a Rossella Miccio

R. - Non siamo gli unici ad essere estremamente preoccupati per l’escalation di violenza di questi ultimi giorni in un paese già abbondantemente oggetto di conflitti e di violenze da tantissimi anni. I nuovi episodi di guerra non fanno altro che aggiungere terrore a quella che è una situazione già molto preoccupante, perché ormai tutta l’area dalla Siria, al Libano fino all’Iran e all’Afghanistan, è una zona in cui le guerre da decenni sono diventate l’unica realtà della vita quotidiana di milioni di persone.

Emergency opera in Iraq dal 1995, in che cosa consiste principalmente la vostra attività?

R. - Operiamo soprattutto nella zona del Kurdistan iracheno, colpita recentemente dai missili iraniani; siamo inoltre a Sulaymaniyya e fino a poco tempo fa eravamo anche ad Erbil. Abbiamo un centro che dal 1998 fornisce protesi di arti superiori ed inferiori alle vittime della guerra e delle mine nel Kurdistan iracheno ma anche nel resto dell’Iraq. Spesso arrivano pazienti dalla Siria e dal vicino Iran, zone dove ci sono ancora tantissime mine.

Perché la comunità internazionale non tiene conto degli allarmi lanciati dalle organizzazioni non governative umanitarie impegnate in territori di guerra come l’Iraq?

R. - Il problema vero è che si continua a considerare la guerra come uno strumento legittimo per poter risolvere problemi che hanno natura politica ed economica. Ovviamente noi non siamo d’accordo e, anzi, consideriamo l’uso ed il ricorso alla violenza e alla forza militare come un’aggravante di questi problemi. Nel 2020 dovremmo avere una comunità internazionale che abbia il coraggio di affrontare queste situazioni con strumenti diversi, ad esempio con la diplomazia e il dialogo, puntando davvero a creare delle relazioni internazionali nuove, basate sul rispetto dei diritti di tutti e non sul diritto di chi è più forte, di chi a la bomba più grande o di chi può schiacciare il bottone per primo. Il fatto che siamo in un’epoca in cui le bombe atomiche sono milioni di volte più potenti rispetto a quelle che hanno distrutto Hiroshima e Nagasaki dovrebbe farci riflettere un po’ di più. Invece, dobbiamo purtroppo constatare che la saggezza non è una delle caratteristiche principali di chi in questo momento governa il mondo.

 

Come si sta preparando Emergency ad affrontare eventuali nuovi sviluppi del conflitto?

R. - Stiamo monitorando la situazione e se dovesse esserci bisogno siamo pronti ad intensificare il nostro intervento, sperando di disporre delle risorse sufficienti e delle condizioni di sicurezza per poterlo fare. Ovviamente, ci auguriamo che questa evoluzione negativa non ci sia e che nonostante le minacce, la ragione ed il buon senso prevalgano.

Chi sono le persone che si trovano a pagare il prezzo più alto in questi conflitti?

R. - Sono persone come noi. Donne, uomini, bambini che non hanno nulla a che vedere con le ragioni di queste guerre e che in molti casi non sanno neppure perché una guerra è combattuta sulle loro teste e nelle loro vite. Persone che, nonostante tutto, provano a vivere quotidianamente una normalità che è quella di andare a lavorare, andare a scuola, tornare la sera a casa e ritrovare la propria famiglia. Spesso però avviene esattamente il contrario. Ormai è un dato di fatto che nei conflitti contemporanei 9 volte su 10 la vittima sia un civile. È questo il dato che più di ogni altro dovrebbe far riflettere chi le guerre le decide senza subirne le conseguenze, almeno non quelle dirette.

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

09 gennaio 2020, 14:46