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Manifestanti in piazza a Bogotà Manifestanti in piazza a Bogotà 

Proteste a Bogotà anche dopo l’annuncio di riforme di Duque

Il messaggio di critica al governo resta vivo in Colombia anche se il presidente ha annunciato un piano di dialogo nazionale con i governatori locali. I movimenti di piazza trasversali alla società non si sentono rappresentati dalle istituzioni politiche. E’ quello che accade anche in Honduras. Intervista con Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non si fermano le manifestazioni di protesta dopo che il Presidente colombiano Iván Duque Márquez ha promesso ieri un processo di riforme, avviando ufficialmente a Bogotà il “dialogo Sociale nazionale”. Da giovedì centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il Paese contro il governo. Duque ha spiegato che il primo turno del dialogo passerà attraverso i governatori regionali appena eletti, quindi sarà la volta degli imprenditori e dei sindacati. Per capire se le dichiarazioni del Presidente vengono incontro alle richieste dei manifestanti, abbiamo intervistato Paolo Valvo, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano:  

Ascolta l'intervista a Paolo Valvo

R. – Sicuramente, l’annuncio del presidente colombiano Duque di avviare questo tavolo di consultazione un po’ a tutti i livelli della società e della politica, nazionale e locale, sembra un segnale incoraggiante in quella direzione. Va però tenuto conto del fatto che   già alcuni hanno fatto notare al presidente che i protagonisti delle proteste, che hanno messo a ferro e fuoco la Colombia negli ultimi cinque giorni, potrebbero sentirsi non rappresentati. E’ chiaro che la consultazione, come annunciato da Duque, dovrebbe coinvolgere soprattutto i governatori locali un po’ a tutti i livelli ma questo significa comunque che ancora una volta si parla al livello delle istituzioni politiche, legittimate dal punto di vista democratico ma pur sempre istituzioni politiche. Questi movimenti di piazza sono movimenti non totalmente riconducibili al dibattito politico, sono trasversali alla società e potrebbero non sentirsi rappresentati. Quindi, questo è un campanello d’allarme ed è sicuramente un segnale che da parte del governo si capisce la necessità di dover fare qualche passo concreto, ma potrebbe non essere considerato sufficiente.

La piazza chiede misure economiche nell’immediato: è così?

R. – Certamente. Rientra nell’ambito delle agitazioni popolari che, come sappiamo, stanno interessando quasi in simultanea la maggior parte dei Paesi dell’America Latina.

L’altro aspetto è quello contro la corruzione. Il malcontento è aumentato con i leader politici accusati di esercitare la regola del partito unico dal colpo di stato del 2009 e di essere collusi con la criminalità organizzata. Il presidente apre un dialogo politico essenziale, importante, fondamentale, ma è la risposta alla domanda di giustizia contro la corruzione che è emersa dalla piazza?

R. – Non credo. Se la risposta alla corruzione politica viene dalla politica in modo ancora autoreferenziale, per quanto – ripeto – coinvolgendo diversi livelli di governo, potrebbe rappresentare agli occhi di molti una contraddizione in termini. E’ una contestazione contro il sistema, è una contestazione molto radicale …

Guardando ad altri Paesi che sono stati invece al centro della cronaca settimane fa, per esempio, parliamo di Honduras: lì lo scontro politico risale al colpo di Stato del 2009, non c’è mai stata fino ad oggi una svolta. Crimine violento, povertà sono un po’ parole d’ordine di tutta l’America Latina e in particolare dell’Honduras…

R. – Esattamente. L’Honduras è uno dei Paesi, tra l’altro, che negli ultimi anni è stato in una classifica piuttosto spiacevole: è il terzo Paese latinoamericano in termini di violenza letale, quindi come tasso di omicidi segue solo il Venezuela ed il Salvador. Anche qui ci sono delle micce che vengono accese da episodi politici delle ultime settimane. L’ultimo elemento scatenante  è stato l’annuncio che il procuratore di New York, Jason Richman, aveva sostanzialmente accusato il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, di avere ricevuto un milione di dollari in tangenti da parte di trafficanti di droga del narcotraffico internazionale, coinvolgendo tra l’altro anche il famoso capo clan Joaquín Guzmán, El Chapo. Questa è stata la contingenza politica che ha rinfocolato proteste e opposizioni. Ma l’Honduras ha un problema strutturale che è legato al tema   del narcotraffico, cioè questa violenza endemica che ormai ha penetrato la gran parte dei gangli anche dell’amministrazione, per cui quando parliamo di corruzione e di narcotraffico non parliamo di due temi distinti, ma parliamo di due facce della stessa medaglia. Il narcotraffico che si inserisce anche all’interno della politica, riesce anche a corrompere la politica e quindi sostanzialmente a costituirsi come Stato nello Stato.

Legato strettamente alla questione del narcotraffico c’è anche il traffico di esseri umani, la disperazione dei flussi migratori …

R. – Certamente. Anche qui ci sono dati spaventosi: teniamo conto che da ottobre 2018 alla fine dell’estate 2019, si calcola che le pattuglie di frontiera degli Stati Uniti abbiano arrestato oltre 240 mila honduregni che cercavano di attraversare le frontiere del Paese dal Messico. Stiamo parlando di qualcosa come il 2,5 per cento della popolazione dell’intero Honduras. Quindi, cifre che in proporzione sono spaventose. Chiaramente il problema delle migrazioni è strettamente connesso con il tema della violenza, sia perché la stessa migrazione è oggetto di continue vessazioni, di continui ricatti e soprusi da parte del narcotraffico, da parte dei cartelli, sia perché oramai la violenza è endemica nel Paese e rappresenta una delle cause principali per cui così tanta gente sceglie di emigrare, peraltro intraprendendo, appunto, cammini che sono estremamente pericolosi. Bisogna dire che, da questo punto di vista, il quadro internazionale non aiuta. Ad esempio, è evidente che la meta fondamentale di migrazione per tutti i Paesi centroamericani, e non solo, sono gli Stati Uniti d’America, i quali avrebbero la possibilità – e certamente la responsabilità – di fare degli investimenti concreti in Paesi come l’Honduras per cercare di risolvere a monte i problemi che poi generano flussi migratori così intensi. Consideriamo quello che è successo nelle ultime settimane, e quindi questo accordo tra gli Stati Uniti e l’Honduras: improvvisamente l’Honduras, pur essendo – ripeto – il terzo Paese più violento dell’America Latina, secondo i dati dell’anno scorso, è improvvisamente diventato, secondo gli Stati Uniti, secondo il Dipartimento di Stato, un Paese sicuro. E questo ci fa anche capire come queste crisi locali, queste proteste si inseriscano in uno sfondo che è uno sfondo necessariamente internazionale e transnazionale, da un punto di vista sia della grande politica, sia anche della proiezione transnazionale di questi gruppi di criminali che la fanno da padroni in Paesi come l’Honduras. Ma l’Honduras non è solo, evidentemente.  

 

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25 novembre 2019, 14:43