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Manifesto della XVII Giornata mondiale contro la pena di morte Manifesto della XVII Giornata mondiale contro la pena di morte 

Pena di morte: bambini vittime invisibili

Nell’odierna Giornata mondiale contro la pena capitale l’attenzione per la prima volta puntata sui diritti dei bambini figli di genitori nei bracci della morte o già giustiziati. Intervista ad Elisabetta Zamparutti di “Nessuno tocchi Caino”.

Roberta Gisotti – Città del Vaticano

Una ricorrenza che non passa inosservata per il destino di migliaia e migliaia di condannati a morte ogni anno, in attesa di esecuzione. La Giornata arrivata alla sua XVII edizione è stata celebrata la prima volta nel 2003 per iniziativa della Coalizione mondiale contro la pena di morte, che riunisce 159 organizzazioni impegnate per abolirla in tutto il pianeta.

I diritti violati dei bambini, figli di condannati a morte

Quest’anno l’attenzione è puntata sulle “violazioni dei diritti dei bambini i cui genitori hanno ricevuto una condanna a morte o sono stati giustiziati” e che portano per tutta la vita il fardello di una privazione o lutto subito per mano dello Stato, che si rivela sovente destabilizzante nel loro vissuto psichico, talvolta anche nell’età adulta. La scelta di questo tema coincide con la celebrazione quest’anno del 30mo anniversario della Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’assemblea generale dell’Onu il 20 novembre 1989 e ad oggi ratificata da ben 196 Stati.

Una lotta per la vita, una giustizia senza vendetta

Dunque a che punto siamo in questa battaglia per la vita, per una giustizia senza vendetta? Quanti sono oggi i Paesi che applicano la pena di morte e come procede la moratoria delle esecuzioni chiesta dall’Onu? Abbiamo raggiunto buoni risultati ma la strada da percorrere è ancora lunga, spiega Elisabetta Zamparutti dell’organizzazione internazionale non governativa “Nessuno tocchi Caino”, impegnata da oltre 25 anni per l’abolizione della pena capitale in tutto il mondo.

Ascolta l'intervista ad Elisabetta Zamparutti

R. – Il numero degli Stati che a vario titolo hanno deciso di rinunciarvi, o perché sono abolizionisti oppure perché sono abolizionisti di fatto oppure perché attuano una moratoria delle esecuzioni, sono ormai una schiacciante maggioranza: sono 165 contro ‘solo’ – si fa per dire - 33 Paesi che non solo la mantengono nei loro ordinamenti, ma che anche la praticano. L’anno scorso, il numero delle esecuzioni è stato di almeno 2.758; sono state esecuzioni compiute in 20 Paesi tra i quali primeggia – come sempre – la Cina, poi c’è l’Iran con oltre 300 esecuzioni, e l’Arabia Saudita con almeno 142. Il dato che emerge dalla nostra analisi è che la pena di morte è legata allo stato di diritto, alla democrazia, tant’è che gli Stati che ancora la praticano sono prevalentemente Paesi illiberali o non democratici, anche se ancora viene praticata negli Stati Uniti e in Giappone, ma osserviamo – per restare sugli Stati Uniti, che è il Paese su cui si pone di più l’attenzione – che comunque c’è un ricorso sempre minore, per cui il numero delle esecuzioni si riduce ogni anno, come pure il numero delle condanne a morte, così anche il numero dei detenuti nei bracci della morte.

Questi sono anche gli effetti positivi della moratoria universale delle esecuzioni, chiesta dall’Onu nel 2007?

R. – Certo, perché quel testo, approvato per la prima volta nel 2007 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha proclamato una moratoria delle esecuzioni capitali in vista dell’abolizione definitiva – la storica battaglia di “Nessuno tocchi Caino” – ed ogni due anni poi questo appello è stato ribadito, è stata reiterata questa richiesta che un valore ovviamente immenso: noi sappiamo che le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite non sono giuridicamente vincolanti, ma hanno un valore politico e morale molto forte, tant’è che si è impressa una forte accelerazione nella lotta alla pena di morte. Devo dire che il continente che ha dato il maggior contributo all’accelerazione del processo abolizionista in corso nel mondo è stato il continente africano.

Ad oggi ci sono migliaia di condannati a morte nelle carceri di numerosi Paesi: quasi 1.300 nella sola Malesia; una sorta di tortura a vita in attesa di una possibile esecuzione.

R. – Eh bé, sì, anche perché accade che i condannati a morte non solo abbiano questa attesa - che può essere un tempo infinito - ma spesso la scontano anche in condizioni di isolamento. Io credo invece che la speranza debba essere coltivata da tutte le persone ristrette nei bracci della morte e quindi anche per loro dev’essere data una possibilità di cambiamento e deve essere riconosciuto questo diritto fondamentale che è il diritto alla speranza. Questo significa anche ripensare l’intero impianto del carcere.

 

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10 ottobre 2019, 12:46