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Prof. Bellieni: il pain principle per misurare il dolore anche nei neonati

Nell’intervista a Vatican News il prof. Carlo Bellieni parla del protocollo del pain principle, il principio del dolore, che misura il livello di sofferenza del soggetto, valuta se questa sia eliminabile e, in caso di dolore insopportabile, passa alla diminuzione dell’intensità e invasività delle cure

Debora Donnini – Città del Vaticano

“Il dibattito sul fine-vita in pediatria negli ultimi tempi ha mostrato di incagliarsi quando viene usato come principio decisionale il cosiddetto best interest del bambino”. Così il professor Carlo Bellieni, neonatologo, membro della Pontificia Accademia per la Vita, vicepresidente di Scienza e Vita, che propone, come ha fatto anche in un convegno tenutosi il mese scorso a Roma, al posto del best interest principle, il principio del miglior interesse, di seguire il protocollo del pain principle, il principio del dolore. In uno studio pubblicato su Medicina e Morale, il prof. Bellieni illustra la serie di passaggi secondo i quali applicare questo protocollo.

Prof. Bellieni, prima di tutto in cosa consiste il metodo di misurazione del dolore?

R. – In un insieme di sistemi per misurare il dolore, che sono attualmente disponibili in tutti gli ospedali. Questo serve per l’assistenza di tutti i giorni, per capire se un bambino sta bene o sta male e nei casi di fine vita, nei casi gravi, anche per capire se dobbiamo insistere con un certo livello di cure invasive e anche forse fastidiose oppure se le cure non sono così fastidiose possiamo continuare.

Si può quindi misurare il dolore dei neonati?

R. – Sì, assolutamente. Si può misurare il dolore di chiunque nella misura in cui abbiamo degli strumenti per poterlo capire. Fondamentalmente sono di tre tipi. Il primo è quello di andare a valutare nel sangue o nella saliva se c’è un aumento degli ormoni dello stress. Il secondo sistema è quello di valutare l’attività del sistema nervoso simpatico. Terza cosa - questa un po’ più complessa, però si può fare - andare a fare delle valutazioni di mappatura cerebrale con l’elettroencefalogramma per vedere se si stanno attivando le aree del nostro cervello o del cervello di un bambino, che sono quelle che si attivano quando siamo sotto stress.

Lei ha quindi descritto per i clinici un protocollo innovativo, questo metodo sarebbe il pain principle, il principio del dolore, che nella pratica dovrebbe sostituire il best interest principle. Perché lei sostiene che potrebbe sostituire il best interest principle?

R.  – Il best interest principle è un principio molto, troppo elastico. Quindi, come dicono vari bioeticisti, che io ho seguito nel ragionamento e nell’applicazione pratica, è più facile invece dire cosa ti fa male, dato che mentre il benessere non lo possiamo misurare, il dolore e lo stress lo possiamo misurare. E per questo ho proposto questo sistema, che si chiama pain principle, principio del dolore, che agisce soprattutto a tre livelli. Il primo, come visto poco fa, misurare il dolore. Anche in chi non può parlare, anche in chi è in uno stato di coma, in chi è in uno stato vegetativo, si può misurare il livello di stress e capire se sta subendo un livello di dolore e stress alto oppure no. Secondo, se ci troviamo in presenza di un dolore elevato, dobbiamo non insistere con le cure che provocano questo dolore alto. Quindi, primo vedere se il dolore si può ridurre con i sistemi farmacologici o non farmacologici che abbiamo a disposizione e secondo, se non riusciamo a ridurlo, dobbiamo ridurre noi l’invasività, l’aggressività delle cose che stiamo facendo a questo soggetto. Se il dolore vediamo che invece non c’è, non c’è nessun motivo di diminuire la nostra invasività. Terza cosa è capire che possiamo diminuire l’invasività ma mai con lo scopo di far morire qualcuno. Il pain principle ha questo scopo e questo fine: misurare il dolore, ridurre o continuare le cure a seconda del livello di dolore e di stress che abbiamo visto nel paziente.

Ovviamente diminuire l’invasività delle cure non significa assolutamente sospendere alimentazione, idratazione, assistenza respiratoria…

No, perché idratazione e alimentazione non sono delle cure, sono semplicemente quello che una persona dà a un’altra per consentirgli la sopravvivenza, non rientrano nelle terapie e quindi non c’entra di poterle sospendere. L’assistenza respiratoria, se serve, si può cambiare di modalità: da un’assistenza più invasiva e più dolorosa a un’assistenza meno dolorosa. Il senso di questo principio ha al fondo il favor vitae, l’intenzione è quella di non lasciare il fine-vita nelle mani della soggettività, cioè dell’impressione che uno ha riguardo a criteri soggettivi e valutabili e cambiabili da persona a persona. A noi interessa che la vita e la dignità della persona vengano sempre rispettate e per far questo servono strumenti oggettivi, chiari e ben definiti e riconosciuti dalla comunità scientifica.

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13 marzo 2019, 15:09