Sant’Egidio, presto una vera scuola per i profughi Rohingya in Bangladesh

Alberto Quattrucci, a capo della missione della Comunità di Sant’Egidio nei campi profughi bengalesi dove vivono più di un milione di musulmani Rohingya fuggiti dal Myanmar, è appena rientrato da Cox's Bazar: “la scuola è il primo passo per un’integrazione di questo popolo senza patria in Bangladesh”

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

La nuova speranza per centinaia di bambini Rohingya, sui 640mila fuggiti con i genitori di fede musulmana dal Rakhine, la regione del Myanmar confinante con il Bangladesh, si chiama “School of hope end peace”, scuola di speranza e di pace. E’ il progetto della Comunità di Sant’Egidio, insieme con gli studenti universitari e professori musulmani delle università bengalesi dell’ong “We The Dreamers”, per costruire una scuola di mattoni al posto della baracca di canne e lamiera che oggi ospita 500 bambini e gli insegnanti, anche loro rifugiati Rohingya.

La grande fuga dei Rohingya dal Myanmar nel 2017

La Comunità nata a Trastevere, arriva a Cox’s Bazar poco dopo l’emergenza dell’agosto 2017, con la prima fuga di 750mila profughi dalle violenze dell’esercito birmano. Ma la fuga dei Rohingya, il più grande popolo senza patria del mondo, è iniziata nel 1982 quando il regime militare birmano tolse loro la cittadinanza. Oggi nel Bangladesh i rifugiati Rohingya sono più di un milione.

Quattrucci: i monsoni hanno distrutto i tetti di tante capanne

Alberto Quattrucci, responsabile per il dialogo interreligioso della Comunità di Sant’Egidio, è appena rientrato da Cox’s Bazar, e descrive a Vatican News la difficile situazione nei campi: “A dicembre i monsoni hanno provocato smottamenti di queste specie di capanne, che poi sono pezzi di canne con delle plastiche … e questo ha comportato alcune vittime, la perdita soprattutto anche di questo minimo di coperture dei luoghi per dormire per tanti, per decine di migliaia di persone. C’è un intervento un po’ più pianificato dell’esercito bengalese nei campi, con distribuzione di cibo, con piccole, leggere costruzioni anche in mattoni, per dare un po’ più di solidità. Però siamo molto lontani da una copertura innanzitutto delle emergenze che comunque continuano, a livello di ospedali, di sanità ma poi soprattutto molto lontani da una possibilità di soluzione futura: questo è il grande problema”.

Tra tre mesi pronta la "Scuola di speranza e pace"

L'abbraccio del Papa ai Rohingya nel 2017 a Dhaka

Quattrucci ricorda che nell’autunno del 2017, due settimane prima della visita di Papa Francesco in Myanmar e Bangladesh, il comitato congiunto Myanmar-Bangladesh aveva valutato la possibilità di un rimpatrio dei Rohingya. Il Pontefice, la sera del 1 dicembre 2017 a Dhaka, incontrando sedici Rohingya aveva lanciato un appello: “Continuiamo a far loro del bene, ad aiutarli; continuiamo a muoverci perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo i cuori, non guardiamo dall’altra parte. La presenza di Dio, oggi, anche si chiama ‘Rohingya’ “. 

Ascolta l'intervista ad Alberto Quattrucci

Dall'agosto 2017, nessuno è rientrato nel Rakhine

“Ma in quasi due anni - sottolinea Quattrucci - non è rientrato neanche un Rohingya, anche per un motivo molto banale e semplice: nessuno di loro vuole rientrare in un Paese che li ha perseguitati, torturati, che ha bruciato i loro villaggi, senza poi peraltro avere alcun documento di identità. Ricordiamo che sono la popolazione apolide più grande del mondo”.

Come è iniziato l’impegno di Sant’Egidio nei campi profughi dei Rohingya in Bangladesh?

R. – Come Sant’Egidio, innanzitutto ci ha colpito la situazione drammatica, in Myanmar, di un buddhismo molto duro, nazionalista, con un esercito che caccia e che perseguita i musulmani, sentiti come corpo estraneo. Poi, c’è stata la vicenda della grande fuga di 750 mila persone: allora abbiamo detto che avremmo dovuto fare qualcosa, per essere vicini a questa gente. Abbiamo iniziato una serie di missioni collaborando con una realtà molto interessante di giovani musulmani bengalesi, l'Ong “We The Dreamers”. Abbiamo firmato un accordo con loro, abbiamo incominciato a lavorare in quattro campi, all’inizio con aiuti sanitari e di cibo, raccogliendo fondi a livello privato. Ora, da qualche mese, stiamo lavorando per la costruzione di una scuola per i bambini, che abbiamo intitolato “scuola della speranza e della pace”. La scuola, che ospita 500 bambini, ha già iniziato a lavorare, in un edifico provvisorio, con l’aiuto di maestri Rohingya, anche loro rifugiati. Abbiamo dato loro, con piccoli stipendi, la possibilità di lavorare e insegnare. In questi giorni la scuola è in costruzione, e speriamo di inaugurarla tra due-tre mesi … Sarà una piccola scuola con due sale, con un centro nutrizionale vicino per poterci prendere cura della situazione sanitaria dei bambini, ma anche delle loro famiglie. Potrebbe essere veramente un progetto pilota, perché con la collaborazione italiana stiamo studiando la possibilità di riprodurre queste “scuole della speranza e della pace” anche in altri campi, visto che per i Rohingya la prospettiva è quella di rimanere a lungo in Bangladesh.

C’è la speranza di una progressiva integrazione almeno dei bambini e dei giovani?

R. – Alcuni dei campi Rohingya sono legati a villaggi preesistenti di bengalesi. Di fatto, negli ospedali già c’è un’integrazione con la popolazione dei Chittagong della zona del Sud del Bangladesh. I pazienti degli ospedali sono indifferentemente bengalesi o Rohingya. E c’è anche la fortuna che la lingua Chittagong è molto simile alla lingua Rohingya, quindi possono capirsi bene. Quindi quella dell'integrazione dei Rohingya in Bangladesh può essere una prospettiva futura, perché non ne vediamo molte altre. Che fine farà questo popolo, osteggiato ovunque nel mondo?

La richiesta di aiuto da parte della Comunità di Sant'Egidio rimane sempre aperta?

R. – Certo., e auspichiamo che la stessa cooperazione italiana, come la cooperazione di altri Stati europei, possa convergere su alcuni obiettivi comuni, come questo dei bambini. Resterà la nostra presenza in questi campi, anche grazie alla collaborazione con gli studenti universitari e professori delle università del Bangladesh legati a “We The Dreamers”.

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Nei campi più di 600 mila piccoli rifugiati
01 febbraio 2019, 17:27