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Il campo di concentramento di Auschwitz Il campo di concentramento di Auschwitz 

Piero Terracina: io, superstite di Auschwitz

Impegnato per mantenere viva la memoria della Shoah: Piero Terracina fu deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia, composta da otto persone. Fu l’unico a tornare in Italia. Riproponiamo questa intervista rilasciata alla Radio Vaticana nel 2012

Paolo Ondarza - Città del Vaticano

R. – Quando racconto, rivivo quei momenti. E’ uno stress terribile. Io credo che sia, intanto, un impegno che noi sopravvissuti abbiamo nei riguardi di quelli che Primo Levi ha chiamato “i sommersi”. Credo sia necessario parlare con i giovani, perché i giovani rappresentano il futuro e devono sapere quello che è stato. E questo è il massimo che io possa pretendere come compensazione per la fatica che faccio, perché faccio fatica…

Ascolta l'intervista a Piero Terracina

D. – Ancora oggi c’è chi non crede che sia accaduto realmente, o comunque chi vuole negare che sia accaduto realmente tutto quanto …

R. – Guardi, io non auspico che venga istituita la galera per chi vuole negare. Ora, questa è gente che certamente, se fosse vissuta allora, sarebbe stata dalla parte dei carnefici e probabilmente sarebbero stati carnefici essi stessi. Come si può negare? Quando io dico: siamo partiti in otto della mia famiglia e quando sono ritornato mi sono ritrovato solo, ma dove sono finiti gli altri? Quando io parlo della deportazione del 16 ottobre 1943 da Roma, quando furono deportati 1.023 innocenti, compreso un bambino ancora senza nome - e sono tornati in 16! - che cosa possono dire? Che sono scomparsi? Certo: ad Auschwitz non risulta che siano arrivati. Ma io me li ricordo. Me li ricordo lì, sulla rampa dell’arrivo, l’abbraccio di mamma, le parole di papà… ricordo tutto! Sono tornato solo, di otto persone…

D. – Privati della dignità, trattati come bestie – forse peggio? – offesi nel pudore: come è stato possibile poi risalire, dopo tanta prostrazione?

R. – Si dice: ma poi la vita riprende, la vita continua… Non è vero. La vita finisce. Poi ne comincia un’altra. Posso dire che io oggi conduco una vita assolutamente normale. Ho tante gioie, ho tanta gente che mi vuole bene e tanta gente a cui voglio bene. Essere circondato da persone che ti vogliono bene: io credo che sia il massimo che un essere umano possa pretendere dalla vita. E quello che non possiamo dimenticare, quello che non accetto, è proprio quello che è accaduto allora!

D. – Prova ancora rabbia per quello che è accaduto?

R. – Direi: rabbia proprio, no. Intendiamoci, la rabbia potrebbe portare anche a compiere gesti inconsulti. Se si fosse presentata l’occasione di vendicarmi, non ne sarei stato capace. E penso che se lo avessi fatto, se mi fosse capitata l’occasione e lo avessi fatto, sarei sceso allo stesso livello dei miei aguzzini, e io non sono un aguzzino. Avrei certamente invocato giustizia, ma mai vendetta.

D. – In quei momenti, che cosa l’ha aiutata a sopravvivere, ad andare avanti? C’era un pensiero?

R. – Direi che sono stati i miei 15 anni: a quell’età non si vuole morire. Si rimane aggrappati alla vita, a qualsiasi costo. Certo, purtroppo credo che in certi momenti mi sono dovuto dimenticare di tutto e di tutti, perché dovevamo pensare soltanto a sopravvivere in quel momento. Sapevamo che non c’era futuro: io sono stato deportato nel campo di Auschwitz-Birkenau, il campo costruito dalle “SS” con rigore scientifico per dare la morte e per ridurre in fumo e cenere migliaia – dico migliaia! – di esseri umani ogni giorno. Anche mentre stavano dormendo c’era pericolo: perché potevano tornare le “SS” e ordinare una nuova selezione. Non c’era un momento di tregua, non c’era un momento di tranquillità, né giorno né notte. Ogni momento era il momento in cui si sarebbe potuti morire. Sapevamo che tanto, la nostra unica via d’uscita era quella del forno crematorio. E naturalmente, vivere in quelle condizioni non è vita: posso dire che era soltanto morte. La morte era tra noi, in ogni momento: quando rientravamo la sera, molte volte dovevamo portare i nostri compagni che non avevano resistito. E rientrando al campo non era finita: quando rientravamo al campo, dovevamo assistere alle punizioni e tra queste, l’impiccagione…

D. – In molti si sono tolti la vita, nell’esperienza dei campi di sterminio, e anche dopo, perché non sono riusciti a sopportare quello che si portavano dentro. Lei ha mai pensato che non valesse più la pena vivere?

R. – No. Sinceramente, no. Anche perché durante la seconda vita che ho avuto, ho avuto anche tante gioie. Il fatto di poter raccontare, di poter trasmettere la memoria ai giovani, è un ritorno positivo.

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26 gennaio 2019, 09:58