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Padre Patton a sinistra con i capi delle Chiese di Terra Santa Padre Patton a sinistra con i capi delle Chiese di Terra Santa 

Custode Terra Santa: il messaggio di Mahmoud Abbas è un grido di sofferenza

Da Gerusalemme, il francescano padre Francesco Patton, ai microfoni di Radio Vaticana Italia, riflette sul segnale che il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese vuole dare all’Occidente e al capo della Chiesa Universale

Antonella Palermo – Città del Vaticano

L’intenzione di Abbas – da lui stesso esplicitata, prima dell’udienza in Vaticano, in una intervista su La Stampa – è recapitare ai leader italiani e al Pontefice il messaggio per cui “L’America non basta più per raggiungere la pace” e che “gli Usa non possono essere gli unici mediatori in Medio Oriente”.

Ascolta l'intervista a Padre Patton

R. – Direi che è il segnale soprattutto di vedere che, dopo tanti anni, ancora passi significativi non ce ne sono; quindi, è il vedere anche che il cosiddetto progetto dei due Stati rischia di andare via via evaporando. E’ un progetto che sembra che sia continuamente eroso dal cambio della situazione, e quindi io penso che il messaggio del presidente Abu Mazen sia soprattutto – oserei dire – un grido di sofferenza. E’ la situazione che vive la stragrande maggioranza dei palestinesi i quali in qualche modo sentono che il loro sogno, anche di avere una patria, di avere uno Stato non è affatto a portata di mano. Quindi, più che un tipo di dichiarazione anche – come dire – politica, forse è anche una dichiarazione di un dato di fatto, di una sofferenza che è la sofferenza di un intero popolo.

E allora, secondo lei, da chi dovrebbe arrivare un’opera di mediazione che contribuisca realmente al perseguimento di questo scopo?

R. – Di fatto è compito proprio della comunità internazionale e, credo, in primis dei grandi Paesi come Stati Uniti, Russa e Unione Europea. Però, poi è compito delle due realtà, cioè della realtà della classe politica palestinese e della classe politica israeliana: trovare il modo di sedersi realmente attorno a un tavolo e riprendere un dialogo. Perché fin quando non ci sarà anche una ripresa di dialogo tra i due diretti interessati, sarà difficile fare passi in avanti. Non può essere neanche una soluzione semplicemente proposta o imposta dall’alto; dev’essere anche una soluzione che vede i due popoli – la classe politica dei due popoli – direttamente coinvolta e capace effettivamente di dialogare sapendo che per arrivare a risultati bisogna che ci sia da parte di entrambi la capacità di avere un’apertura di fiducia nei confronti dell’altro, di avere anche un linguaggio che sia reciprocamente rispettoso, di avere tutta una serie di atteggiamenti in cui si sia disposti a cedere qualcosa e per cui in cambio si sappia anche di ottenere qualcosa.

Ieri, prima Domenica di Avvento, lei - come da tradizione - ha fatto l’ingresso solenne a Betlemme, nella chiesa di S. Caterina. Come vive la popolazione questa attesa del Natale?

R. – Dipende un po’, da luogo a luogo: a Betlemme, l’evento-Natale si sente in maniera fortissima già dall’inizio dell’Avvento, per cui i cristiani locali riescono in qualche modo a mettere tra parentesi anche tutte le difficoltà che ci sono. Di fatto, Betlemme è la realtà un po’ più difficile perché è una realtà nella quale i cristiani vivono circondati da questo muro che pesa sulla vita di tutti i giorni. Solo i cristiani che vivono a Gaza sono in un contesto più difficile di quello di Betlemme. Per i cristiani che vivono nelle altre comunità qui, in Terra Santa, naturalmente c’è sempre questo desiderio di speranza. Molti cristiani chiedono, anche in maniera esplicita: “Noi preghiamo tanto, desideriamo tanto, chiediamo tanto, però non vediamo mai la fine di una situazione in cui siamo la parte fragile …”.

Dopo la preghiera dell’Angelus, ieri, Papa Francesco ha voluto pregare in particolare per ‘la amata Siria’; lo ha fatto anche con l’accensione di un cero, a significare la fiammella della speranza che deve rimanere accesa. “Preghiamo e aiutiamo i cristiani a rimanere in Siria e in Medio Oriente – ha detto Francesco - come testimoni di misericordia, di perdono e di riconciliazione”. Come è giunto a voi questo gesto e questo rinnovato appello?

R. – La vicinanza del Papa è sentita in modo diretto e molto forte. Soprattutto ai nostri confratelli che vivono in Siria in una situazione di martirio, in particolare a quelli che sono nella regione di Idlib. Essi vivono sotto la pressione quotidiana di Jabhat al-Nusra, che è l’evoluzione di al Qaida; vivono umiliazioni quotidiane e si trovano a rimanere lì per accompagnare le poche centinaia di cristiani rimasti una valle che prima aveva qualche migliaio di cristiani.

 

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03 dicembre 2018, 11:50