Festival della cultura paralimpica: lo sguardo vero sulla disabilità

Si inaugura oggi pomeriggio a Roma, la prima edizione del Festival della cultura paralimpica. Quattro giorni per raccontare come negli anni è cambiata la percezione della disabilità anche grazie a tanti atleti paralimpici

Benedetta Capelli – Città del Vaticano

“La vostra testimonianza è un grande segno di speranza. E’ una prova del fatto che in ogni persona ci sono potenzialità che a volte non immaginiamo, e che possono svilupparsi con la fiducia e la solidarietà”. Papa Francesco con queste parole accarezzava i 6mila atleti paralimpici e i loro famigliari, ricevuti in Vaticano nell’ottobre del 2014. Un riconoscimento del grande lavoro culturale che il Comitato Paralimpico da molti anni svolge, investendo nell’educazione ai valori della solidarietà, dello sport e del rispetto.

Raccontare la disabilità

Il primo Festival della cultura paralimpica è un nuovo tassello di questo grande progetto che è quello di dare a tutti le stesse possibilità, di essere davvero parte di una unica famiglia umana. Il calendario della manifestazione è molto fitto con tavole rotonde dedicate all’evoluzione delle parole che un tempo ghettizzavano gli atleti con disabilità e che oggi fotografano la realtà così come è. Un segno è l’ingresso nella Treccani del termine “paralimpico” ovvero lo sport delle persone con disabilità non solo per definire chi va alle Paralimpiadi.

Pancalli: “stiamo assistendo ad una crescita culturale”

Da 15 anni alla guida del Comitato Italiano Paralimpico, Luca Pancalli, guarda con soddisfazione al Festival della cultura paralimpica che si sta per aprire.

Ascolta l'intervista a Luca Pancalli

R. - Certamente è un momento di bilanci. I bilanci non sono solo ed esclusivamente quelli in termini di risultati tecnici agonistici - con oltre 175 medaglie vinte su tutti i palcoscenici più importanti del panorama sportivo paralimpico -, ma sono soprattutto quelli in termini di azioni, di politiche sportive messe in atto in questi lunghi 15 anni. E sotto questo profilo, credo che il risultato più positivo in assoluto sia quello ascrivibile ad una crescita culturale cui stiamo assistendo nel nostro Paese grazie all’immagine sportiva dei ragazzi e ragazze disabili.

Paralimpico – lei ha detto - è un modo di pensare. In che senso?

R. - La mission del Comitato italiano paralimpico e di tutto il movimento paralimpico è la consapevolezza di utilizzare lo sport come grimaldello, come strumento per contagiare virtuosamente la società nella quale viviamo, dimostrando il fatto che quando una persona disabile viene messa nelle condizioni di esprimere le proprie abilità, quindi di riuscire a guardare a ciò che ha e non a ciò che ha perso, quella persona diventa un campione. Declinando questo nella vita di tutti i giorni noi vorremmo che fossero date pari opportunità a tutti i ragazzi e ragazze disabili in questo Paese, nei processi di inclusione che riguardano ovviamente la dimensione scolastica e formativa, l’inclusione al lavoro, affinché sia riconosciuto il diritto alla vita autonoma indipendente, una vita dignitosa sotto il profilo assistenziale per i più gravi e le loro famiglie. Quindi lo sport come strumento per contagiare la società.

In questi 15 anni c’è stata una crescita anche per quanto riguarda l’accesso agli sport da parti di ragazze e ragazzi diversamente abili?

R. - Sì, c’è stata sicuramente una crescita numerica; ma c’è stata anche una diversificazione di interesse: discipline che fino ad un po’ di anni fa erano poco gettonate, oggi lo sono diventate e, guarda caso, sono quelle in cui lo sport viene declinato come modo di vivere il proprio tempo libero; penso al ciclismo, alla hand bike, allo sci, al tennis … Questo che cosa dimostra? Dimostra che esiste un diritto allo sport che va declinato anche nella consapevolezza che tutti hanno diritto a poter occupare il proprio tempo libero divertendosi, magari, con una sana attività fisica e motoria.

Lei cosa si aspetta per i prossimi 15 anni per tutto il movimento paralimpico, ma anche sul fronte della crescita culturale che auspichiamo si rafforzi ancora di più.

R. - Con grande umiltà noi ci siamo rimboccati le maniche e, assumendo sempre un atteggiamento molto low profile, abbiamo tentato di portare avanti questa grande famiglia paralimpica, dove il fil rouge che ci lega tutti quanti è il fatto che bene o male dal primo all’ultimo siamo tutti passati attraverso un ospedale, una sentenza che ci ha dichiarato persone disabili … Per cui c’è una comunità famigliare. Mi auguro che questa famiglia paralimpica italiana possa continuare a crescere nella consapevolezza che quello che si fa non è che una goccia in mezzo al mare, ad un oceano di cose da fare, che le difficoltà sono tantissime, ma che questa consapevolezza possa perdurare negli anni e crescere sempre di più. Noi investiamo sul capitale umano e sulla cultura di questo Paese. Un Paese cresce anche e soprattutto quando cresce la sua cultura.

L’ingresso nella Treccani del termine “paralimpico”. Che significato ha?

R. - Uno straordinario significato! A mio modo di vedere il dizionario della lingua italiana è la sintesi dei valori di un popolo, di una nazione ed il fatto di vedere inserito il temine “paralimpico” nella sua accezione più estensiva, quindi non soltanto riguardante la paralimpiade ma come aggettivo, come definizione di una persona disabile che svolge un’attività sportiva, significa aver eliminato quel riferimento ad una dimensione di “disabilità”. Prima si parlava di atleti disabili, sia che fossero fisici, sensoriali o intellettivi; c’era sempre quasi un’aggettivazione relativa da una dimensione corporea che rievocava una differenza. Oggi parlare di atleta paralimpico significa riagganciare lo status di atleta di una persona disabile ad una dimensione sportiva attribuendo dignità a tutto il movimento ma anche a tutti gli atleti.

Caironi: rinascere e diventare un’atleta mondiale

Giovedì pomeriggio, al Festival della cultura paralimpica, prenderà parte anche Martina Caironi, protagonista de “L’aria sul viso” del regista Simone Saponieri. E’ un docufilm sulla campionessa azzurra portabandiera italiana alle Paralimpiadi di Rio 2016, medaglia d’oro nei cento metri T42 alle Paralimpiadi di Londra 2012. Investita da un auto a 18 anni mentre torna a casa in motorino, Martina perde la gamba sinistra ma non si arrende alle avversità e riscopre il sapore vero della vita: gli affetti, la forza e il successo come atleta.

Ascolta l'intervista a Martina Caironi

R. - Dopo una prima fase di riassestamento – se così la vogliamo chiamare – c’è stato il desiderio di voler sempre di più, di voler raggiungere obiettivi sempre più grandi per poi arrivare, appunto, ad avere anche l’obiettivo paralimpico, quindi agonistico. Nel giro di pochi anni – perché comunque ho iniziato nel 2010 – già nel 2012 è arrivata questa medaglia paralimpica che ha cambiato abbastanza la mia vita.

Una ragazza di 18 anni che improvvisamente si ritrova un corpo diverso da quello che ha lasciato prima di essere in coma, come riesce anche a fare “click” nella sua testa, a cambiare anche se stessa nell’animo?

R. - Come fai? Si fa più che altro con la voglia, con la curiosità. Quella è stata un po’ la molla che ha fatto scattare tutto. Poi anche le persone attorno a me che mi hanno spronata a ritornare a fare la vita che facevo prima dell’incidente e chiaramente a riprendere piano, piano tutte le attività che prima erano facili, anche scontate, poi diventate un qualcosa di eccezionale. Anche la giovane età ha aiutato, perché comunque a 18 anni si è un po’ all’inizio di tutto. Lì ho costruito la mia vita da adulta. Sono cresciuta un po’ più in fretta e questa cosa è un bene: mi sono trovata di fronte ad un problema più grande di me che, anche grazie ai miei genitori e alla mia forza, sono riuscita a superare.

In un’intervista hai detto: “Ho capito anche come affrontare gli sguardi della gente; c’è stata quindi una trasformazione in me dalla sofferenza alla rabbia, fino all’indifferenza”

R. - Esatto. È stato un procedimento mio, interno che ha avuto delle fasi. Gli sguardi ci sono tutt’ora ma adesso c’è indifferenza da parte mia; mi capita anche di fare dei dispetti a chi mi fissa troppo a lungo, quasi a spaventarli … Sono sguardi che all’inizio fanno male ma dipendono da chi arrivano, perché se ti arrivano da un bambino magari lo capisci di più; da un ragazzo non capisci mai se ti sta guardando perché vede quella cosa come brutta e ti classifica in quel modo … Poi ho capito che effettivamente chiunque non avesse visto in me tutto il resto, non era degno delle mie preoccupazioni.

Negli ultimi anni, la grande attenzione che c’è stata su alcuni campioni paralimpici, come ad esempio Alex Zanardi, Bebe Vio, ha generato anche un cambio culturale; c’è più attenzione sicuramente nel linguaggio. Tu trovi che ci sia una certa differenza rispetto al passato?

R. - Sì, anche se è sempre una lotta riuscire a veicolare il messaggio giusto. In questi anni molte persone mi hanno citato gli esempi positivi di Bebe, Zanardi o della Versace … Però poi quando si andava a chiedere: “Ma tu cosa sai di questa persona?” non sapevano nulla, in un realtà c’è il mito e basta. Magari non si ricorda nemmeno la prestazione sportiva. Io da sportiva ci tengo molto a questa cosa; mi piacerebbe essere conosciuta più per quello che peraltro. Ma, aldilà di questo è un procedimento che richiede tempo e quindi anche lì bisogna passare da varie fasi. Quindi bisogna avere per forza dei trascinatori – e questo lo fa chi ha più “rilevanza mediatica” - e poi ci sono tutti gli altri che lavorano e si danno da fare per cambiare giorno dopo giorno la mentalità di tutti.

Ultimo aggiornamento il 20 novembre alle ore 14.45

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Foto degli atleti del Comitato Italiano Paralimpico
14 novembre 2018, 19:58