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Ucraina: “Caritas Mariupol” continua a servire anche lontano dalla città martire

Don Rostyslav, greco-cattolico, si è dovuto trasferire a Zaporizha e da sfollato racconta come continua a lavorare per i bisogni della gente. Il "sacerdote - ripete - deve andare dove è necessario”

 Svitlana Duckhovych– Città del Vaticano

Tutto quello che gli abitanti di Mariupol hanno vissuto durante i bombardamenti russi della città è stato un insulto alla loro dignità e il primo gesto di misericordia verso le persone, che sono riuscite a fuggire dalla violenza, deve essere mirato a restituire questa dignità, non soltanto assicurando alloggio, cibo, medicine ecc., ma anche offrendo il supporto spirituale e psicologico, e dando la possibilità di guadagnare. Lo afferma durante l’intervista a Vatican News un sacerdote greco-cattolico, che ha vissuto quegli eventi in prima persona: dal 2010 svolgeva il suo servizio a Mariupol, dove guidava anche la Caritas locale, e il 16 marzo scorso ha dovuto lasciare con la sua famiglia la città. Il sacerdote è don Rostyslav Spryniuk. Si è trasferito a Zaporizha, dove viene ospitato presso una delle parrocchie greco-cattoliche e dove è stata trasferita la «Caritas Mariupol», per la quale continua a lavorare.

Andare lì dove c’è bisogno

“Sono andato lì dove c’era bisogno", dice don Rostyslav, raccontando dell’inizio della sua missione in una delle zone dell’Ucraina, dove regnava il “vuoto spirituale post-sovietico”. Lui proviene dalla regione di Ivano-Frankivsk, nell’ovest del Paese, e ha dovuto chiedere permesso alle autorità ecclesiali locali, che "hanno accettato e così sono venuto a Mariupol, perché credo che il sacerdote debba andare là dove è necessario”, afferma. Qui serviva una piccola comunità di circa 50 persone. Non erano tanti, perché, come spiega lui, non c’era una chiesa vera e propria: le celebrazioni si svolgevano nella cappella, allestita nella casa del sacerdote, ma per la gente del luogo è molto importante avere un edificio di culto, una chiesa. “Ultimamente abbiamo iniziato a costruire la chiesa, abbiamo gettato le fondamenta e messo su il primo piano. La parrocchia stava crescendo …”.

La prima catechesi – gesti di misericordia

La missione a Mariupol non è mai stata facile. Dopo l’inizio della guerra nel 2014, il 13 aprile la città è stata presa dai separatisti filorussi e, due mesi dopo, l’esercito ucraino ne ha ripreso il controllo. Nella città è stata temporaneamente trasferita l’Amministrazione Regionale di Donetsk, dato che il capoluogo è rimasto sotto occupazione. “Nonostante il fatto che la linea del fronte era a soli 12 km dalla città, – racconta don Rostyslav, – la vita nella nostra parrocchia continuava: le celebrazioni si svolgevano regolarmente, facevamo la catechesi, avevamo la nostra Caritas, la quale, tra l’altro, aiutava le persone nelle zone cuscinetto”. Per il sacerdote, che proviene dall’ovest dell’Ucraina, dove il regime sovietico non era riuscito a soffocare completamente la fede delle persone, svolgere la pastorale a Mariupol è stata una sfida. “Innanzitutto dovevo spiegare alla gente chi è Cristo, trasmettergli ciò che è la Chiesa e ciò che fa, – dice lui. – E lo facevamo in un modo molto semplice: attraverso l'amore, attraverso la manifestazione della mano misericordiosa di Dio, che è la Caritas. E la gente rispondeva, tanti hanno iniziato a frequentare la chiesa, volevano fondare comunità nei loro villaggi. Le persone lì sono semplici e laboriose, sono sempre state molto aperte. In effetti, era molto appagante lavorare con quella gente”.

Un insulto alla dignità umana

Sebbene fino al 24 febbraio il pericolo a Mariupol fosse stato vicino e costante, don Rostyslav dice che dopo quella data, ha capito che la situazione poteva diventare molto peggiore di quello a cui tutti si erano già abituati. “Intorno alle 4:30 del mattino, – ricorda lui, – mi ha svegliato il mio amico e mi ha detto che era iniziata la guerra. Ho detto che la guerra c’era già da tanto e lui mi ha risposto: ‘Non hai capito, accendi la TV’. In seguito, la vita a Mariupol è diventata ciò che si può descrivere con una sola parola: un ‘inferno’. È stato un insulto alla dignità umana, un insulto alle persone, la distruzione dell’identità umana stessa: la gente era disposta a fare tutto pur di procurarsi qualcosa da mangiare, per procurarsi acqua, medicine, legna per accendere il fuoco e far da mangiare. E tutto doveva essere fatto molto velocemente, perché i bombardamenti non si fermavano nemmeno per un minuto, provenivano sia dall'artiglieria a lungo raggio, sia dal mare, da dove venivano lanciati missili, e dal cielo: da tre a dieci aerei volavano costantemente su Mariupol, facendo cadere bombe su quartieri civili”. Raccontando questi fatti don Rostyslav si ferma alcune volte per riprendere fiato: sebbene da allora siano passati quasi quattro mesi, il dolore è ancora vivo, brucia l’anima e la mente si rifiuta di rivivere quello che alcune volte definisce “un vero inferno”. “Ma la cosa peggiore – dice – era che le persone si abituavano ai bombardamenti e prestavano meno attenzione, per questo tanta gente perdeva la vita. Mio figlio di 17 anni ha visto morire due dei suoi compagni di classe e la sua ragazza. Per miracolo lui è rimasto vivo e illeso. Voglio dirvi questo: quello che abbiamo vissuto è indescrivibile, non riesco a trovare le parole giuste. Per capirlo, uno deve viverlo, ma di certo non lo auguro a nessuno”.

La fuga da Mariupol

A Mariupol don Rostyslav Sprynyuk viveva con sua moglie e due figli di 17 e 9 anni. La coppia ha anche un altro figlio più grande che al momento si trovava a Cherkasy dove lavora. Il sacerdote condivide il ricordo del momento quando ha deciso di lasciare Mariupol: “Sentivo che dovevo rimanere con i miei parrocchiani: questo è il dovere del sacerdote. E ne abbiamo parlato anche con il vescovo. Ma ad un certo punto la situazione a Mairupol è diventata insostenibile: non c’era gas, né luce, né riscaldamento, non c’era connessione internet. Mariupol è una città piuttosto grande, vi abitavano 500 mila persone. E, quando ho visto che la mia comunità si era già dispersa, che non potevo raggiungerla in alcun modo, ed era anche pericoloso, allora abbiamo deciso di unirci al primo corridoio umanitario possibile e il 16 marzo con la mia famiglia siamo partiti. Ho cercato di convincerli ad andarsene anche prima, quando era meno pericoloso, però mia moglie ha rifiutato, perché una volta, all’inizio della guerra nel 2014, era partita per l’ovest del Paese e per due anni e mezzo abbiamo vissuto a distanza e non voleva lasciarmi un’altra volta. Però questa volta, quando la situazione è peggiorata molto, anche lei ha capito che sarebbe stato meglio lasciare la città prima. Per me è stato molto difficile, perché avevo una doppia preoccupazione: ero preoccupato non per me stesso, la mia attenzione era concentrata non solo sull'aiuto alla parrocchia, ma anche alla mia famiglia”. Con amarezza il parroco di Mariupol pensa ai suoi parrocchiani: “Molti di loro sono partiti, molti sono scomparsi, non si sa se siano vivi o siano stati portati via, deportati in Russia. Ho stabilito contatti con circa 10 persone che sono riuscite a partire da lì e sugli altri non ho informazioni”.

Caritas Mariupol: ridare la dignità alle persone

A Mariupol don Rostyslav dirigeva l’attività della sede locale della Caritas che è stata colpita a metà marzo. Sette persone, tra i quali due dello staff, persero la vita. Adesso questa sede si è trasferita a Zaporizhia. In collaborazione con la filiale locale, «Caritas Mariupol» si occupa dei profughi sia di questa città, che delle altre. “Ora le persone hanno bisogno di tutto, – spiega il sacerdote, – perché sono state praticamente strappate dalla loro vita, sono spogliate della loro dignità. Il nostro Stato cerca di aiutare, ma non può raggiungere tutti, perché ora l’attenzione principale è sul comparto militare impegnato a difendere lo Stato dall'avanzata russa. E le fondazioni caritatevoli, come la Caritas e altre, fanno di tutto per aiutare la gente”. Il direttore della Caritas dice che ogni giorno vengono circa 350 persone per avere cibo, vestiti, prodotti di igiene, medicine. “In tutte le città e paesini della parte non occupata dell’Ucraina ci sono i profughi, che hanno perso tutto: qualcuno aveva un’azienda, qualcuno uno studio medico, un altro faceva il notaio. Adesso non hanno più niente e si sentono disorientati, non sanno cosa accadrà domani, come riusciremo a fermare i russi, come far mangiare la propria famiglia. Hanno bisogno di tutto, ma prima di tutto, secondo me, a parte il sostegno spirituale, hanno bisogno di un supporto psicologico. In secondo luogo, dobbiamo aiutarli a ritrovare la propria dignità, offrendo loro la possibilità di lavorare e guadagnare. Ad esempio, lo stiamo già facendo tramite il programma “Cash for work”. Dobbiamo anche aiutare gli imprenditori a riprendere le loro attività o promuovere la riqualificazione”. In questo momento, secondo don Rostyslav, grande attenzione deve essere rivolta al sostegno dei bambini, e in particolare, i bambini disabili. “I minori hanno bisogno di un recupero psicologico per sentirsi al sicuro, in modo che tornino ad essere bambini, – dice. – Abbiamo alcuni psicologi, ma sono troppo pochi, abbiamo bisogno di molti specialisti del settore che potrebbero venire a lavorare qui. Ovviamente, devono conoscere la lingua”.

Superamento del trauma e momenti di gioia

“Come riesce a gestire questi ricordi così traumatici?”, – chiedo il sacerdote. “Cerco di non pensarci, – risponde. – Cerco di lavorare e aiutare le persone, perché se inizi a pensarci, tutto diventa molto difficile. E poi, la mia preghiera è costante, la preghiera aiuta molto”. Dalla misericordia offerta agli altri scaturisce anche la speranza: “La gioia nasce quando vedo che le persone, ricevendo qualsiasi aiuto da noi, iniziano a credere nel futuro – dice. – Lo dimostrano parlando con noi, ci ringraziano per l'aiuto, perché ci occupiamo anche di trovare loro l’alloggio, dandolo gratuitamente agli anziani o alle persone con disabilità. Quando vedo che la gente si sente bene, anch’io mi sento bene”.

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Le attività di Caritas Mariupol
07 luglio 2022, 09:00