Il beato Rosario Livatino Il beato Rosario Livatino

Cafiero De Raho: Livatino, esempio per una magistratura senza carrierismo e rigorosa

All’indomani della beatificazione di Rosario Livatino, nostra intervista al Procuratore nazionale antimafia che indica nel giudice, assassinato in un agguato mafioso, un modello imprescindibile per ritrovare la credibilità della giurisdizione: “Sapeva conciliare fede e diritto senza tradire mai il senso vero della giustizia”

Federico Piana- Città del Vaticano

“La magistratura ha bisogno del modello di Livatino, perché deve essere umile, rigorosa, imparziale, deve rifiutare il carrierismo rispettando i valori della Costituzione e, per chi crede, del Vangelo. Solo così potrà recuperare la sua credibilità”. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, domenica scorsa, era presente nella Cattedrale di Agrigento alla cerimonia di beatificazione di Rosario Livatino, il giudice assassinato dalla Stidda in odio alla fede e perché aveva colpito, con la confisca, i beni dei mafiosi. “E’ stata una celebrazione - afferma- con un alto contenuto emotivo. Per tutti noi magistrati, Livatino sarà l’esempio di una giurisdizione vicina alla gente e in grado di applicare con rigore la legge”.

Ascolta l'intervista a Federico Cafiero de Raho

Livatino è un modello solo per come ha concepito il suo rapporto con la giustizia?

R.- No. È anche un esempio per come ha vissuto la propria interiorità che gli ha consentito di essere profondo: un uomo ricco di valori. In una sua conferenza, egli dimostrava di saper conciliare fede e diritto. La sua espressione ‘Sotto la tutela di Dio’, che in acronimo si trova scritta nelle sue agende e nel Vangelo che leggeva, rappresenta la profonda riflessione che si accompagnava all’esercizio della giurisdizione. E’ la più bella espressione  di un magistrato corretto, umile, sensibile ma anche consapevole dell’esistenza, nel suo territorio, dell'invadenza delle mafie.

 

Livatino ha vissuto pienamente e coerentemente il Vangelo e per questo era disprezzato dai boss locali. Ma è stato ucciso anche perché fu uno dei primi magistrati ad utilizzare l’arma della confisca dei beni. Dopo questo assassinio si prese coscienza che la lotta alla mafia andava intensificata?

R.- Livatino, dopo aver fatto un’esperienza importante presso la Procura della Repubblica di Agrigento, entrò a far parte del Collegio che si occupava delle misure di prevenzione: era il Collegio che, sostanzialmente, applicava anche la confisca, uno strumento utile ad indebolire le mafie, ideato nel 1982 da Pio La Torre, anch’egli assassinato dalle cosche perché, già da allora, esse compresero che quella legge sarebbe stata di una forza dirompente. Allora, applicando la confisca, Livatino finì per diventare il nemico numero uno mentre il cancro della Stidda veniva trattato con molta indifferenza da gran parte di coloro i quali se ne sarebbero dovuti occupare.

 

L’integrità della sua vita di fede lo rendeva incorruttibile. E questo ha dato ulteriore fastidio alla Stidda…

R.- Livatino non era solo giovane ma anche molto fedele: nelle conferenze alle quali partecipò evidenziò questo suo legame alla religione. Invece, le mafie hanno una diversa concezione del rapporto con la Chiesa. Le mafie, in passato, si sono legittimate con questo rapporto attraverso donativi ed altre forme di presenza nella vita ecclesiale e, a volte, riuscivano a stringere un rapporto stretto con i sacerdoti: basta ricordare, per esempio, che molti boss avevano riservati i primi banchi della chiesa. Negli ultimi anni, le cose sono completamente cambiate.

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10 maggio 2021, 16:11