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Tra ideologia teocon e «ospedale da campo»

Su L’Osservatore Romano la recensione del libro di Massimo Borghesi che indaga il pensiero del gruppo di intellettuali statunitensi che da qualche decennio influenza con le sue prese di posizione il mondo cattolico

Lucio Brunelli

Si oppongono alle legislazioni “relativiste” promosse dagli avversari liberal su aborto ed eutanasia e nello stesso tempo cantano entusiasti le virtù non solo economiche ma morali e persino teologiche del capitalismo; rigidi su alcune sacrosante battaglie etiche sono però blandi e permessivi davanti alle guerre “giuste” dei presidenti Bush che hanno prodotto centinaia di migliaia di morti innocenti in Iraq. E ancora: ossequiosi verso le strutture ecclesiastiche ma non riescono a trattenere espressioni di scherno e sarcasmo ogni volta che i Papi — da Paolo VI a Francesco passando per Benedetto XVI — si “attardano” sui vecchi principi solidaristici della dottrina sociale cattolica invece di riconoscere e benedire le splendide e progressive sorti che l’“economia libera” sta portando nel pianeta. Sono le posizioni — tanto originali quanto discutibili — di un gruppo di pensatori cattolici americani che molta influenza hanno avuto negli ultimi tre decenni non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo e anche all’interno del cattolicesimo. Mancava uno studio approfondito, in chiave critica, del loro pensiero e una ricostruzione documentata del progressivo affermarsi sulla scena pubblica delle idee di questo drappello di intellettuali neoconservatori, poi ribattezzati teocon per i loro riferimenti religiosi. La lacuna è colmata ora dal libro del filosofo Massimo Borghesi Francesco, la Chiesa tra ideologia teocon e “ospedale da campo”, Jaca Book, 2021.

Andando alle origini della ideologia teocon Borghesi (già autore di Jorge Mario Bergoglio, una biografia intellettuale, 2017) si sofferma sulla figura di Michael Novak (1933-2017) e sul suo libro-manifesto The Spirit of Democratic Capitalism, pubblicato nel 1982, una sorta di bibbia ispiratrice della nuova corrente di pensiero. La biografia di Novak è interessante, nel 1968 era su posizioni di “socialismo cristiano” e aveva contestato l’Humanae vitae di Paolo VI . Diversi neoconservatori approdano alle nuove idee dopo aver vissuto una delusione a sinistra, nel partito democratico che negli Stati Uniti perdeva sempre più la dimensione sociale e il contatto popolare rischiando di trasformarsi in partito dei poteri forti, salottiero e radical chic. A Washington, all’inizio degli anni ’80, circolava questa battuta di Irving Kristol: «Il neocon è un liberal che è stato aggredito dalla realtà». Nel suo libro Novak parte da considerazioni realiste, condivisibili: le utopie sociali non fanno i conti con il peccato originale, la pretesa di imporre la bontà con mezzi politici porta al totalitarismo e infine ad una maggiore miseria anche del proletariato. D’altro lato però la condivisione novakiana del modello capitalistico — scrive Borghesi — non si limita all’accettazione realistica del dato, inamovibile, della natura umana. Essa scivola sul terreno apologetico. Fino a sostenere, nella lode del capitalismo, che «nessuno aveva prodotto un sistema equivalente di libertà... nessuno aveva innalzato a tal punto le aspettative umane. Nessuno aveva valorizzato tanto la singola persona». Parole testuali, contenute nel libro di Novak. Sferzante il commento di Borghesi: «Nessuno, nemmeno la religione cristiana quindi. La fede e l’etica cristiana non modificano la forma dell’economia, non svolgono una funzione nel disciplinare “gli spiriti animali”, nel promuovere forme di solidarietà ed equità. Al contrario è il cristianesimo che, dopo aver generato i presupposti ideali per la società di mercato, è chiamato a modellarsi sul capitalismo abbandonando quelle velleità critiche che dipenderebbero da uno spirito antimoderno». Novak e i suoi amici neocon Richard Neuhaus (un raffinato pastore luterano convertito al cattolicesimo) e George Weigel (il più giovane del terzetto, diventerà il biografo semiufficiale di Giovanni Paolo II ) formeranno una squadra formidabile, ben affiatata e ben supportata dalle think tank nordamericane: «La troika del liberismo cattolico» li definisce Sandro Magister. Opinion maker molto influenti già prima dell’avvento dei social, cercano legittimazione nelle sacre stanze e pensano di aver vinto la loro battaglia nella Chiesa quando Giovanni Paolo II nel 1991, dopo la caduta del Muro, pubblica l’enciclica Centesimus annus, a cento anni dalla prima enciclica sociale di Leone XIII . Nel documento pontificio i nostri intellettuali vedono la svolta, rivendicano la «rottura» (termine usato da Weigel) rispetto al precedente magistero sociale dei Papi, un insegnamento che si libera dai pregiudizi “feudali” del passato e accoglie il grande insegnamento del capitalismo democratico made in Usa. Si tratta di una lettura forzata, rileva Borghesi, che fa leva su un solo paragrafo dell’enciclica in cui Papa Wojtyła valorizza giustamente la figura dell’imprenditore e la funzione sociale dei meccanismi di mercato all’interno di un’economia libera. Ma nella Centesimus annus erano contenute anche parole inequivocabili, come questa: «È inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto socialismo reale lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica». Espressioni che gli esegeti neocon fingono di non vedere o liquidano come residuali interferenze del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, all’epoca presieduto dal mitico cardinale francese Roger Etchegaray.

Il libro di Borghesi ricostruisce, passo dopo passo, il successo delle idee teocon dopo l’11 settembre, quando le posizioni «cristianiste» (per dirla con Remi Brague) si radicalizzano nel clima apocalittico dello scontro di civiltà tra Occidente e Islam. In Italia tutta una schiera di intellettuali laici, “atei devoti” cooptati nel progetto culturale della Chiesa italiana, si nutre di queste idee: cultural wars su alcuni temi etici e celebrazione dogmatica del capitalismo, posizione interventista nelle due guerre del Golfo (contestate invece sia da Giovanni Paolo II nel 1991 sia dal cardinale Ratzinger nel 2003) e ridicolizzazione di ogni altra opinione come un residuo buonista e pacifista degli anni passati. Fino all’ultimo passaggio, dai teoconservatori ai teopopulisti dell’era Trump, con alcuni punti di continuità e altri di palese discontinuità: involuzione nello stile, decisamente più rozzo, e nei contenuti, obiettivamente più poveri rispetto alla produzione culturale di Novak e dei suoi amici. L’esito più triste (per fortuna limitato nel tempo e nello spazio) è una mentalità che, scrive Borghesi, «vuole ordine, certezze morali, avversari certi, chiari confini. Non ama essere “senza patria”, né in partibus infedelium, né sulla “soglia” come diceva Peguy. Vuole stare tra i “fedeli”, i propri, e combattere senza sosta l’eterna battaglia, priva di sentimentalismi, verso gli infedeli». Un approccio umano e cristiano ai nuovi tempi la cui distanza rispetto agli insegnamenti-testimonianza di Papa Francesco lasciamo ai lettori del libro di Massimo Borghesi misurare e valutare.

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23 marzo 2021, 16:15