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Zamagni: “Il Papa ci fa capire che la sola proprietà privata non basta”

Il Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali riconduce il pensiero su giustizia sociale e redistribuzione dei beni espresso dal Pontefice, a San Basilio di Cesarea e al Codice di Giustiniano: “Gli interventi di Papa Francesco si innervano in una lunga tradizione che inizia dal quarto secolo. Molto spesso lo dimentichiamo”. Per combattere la povertà occorre abbattere le strutture economiche di peccato

Federico Piana- Città del Vaticano

Per commentare il discorso di Papa Francesco su giustizia sociale e proprietà privata, inviato al primo Summit dei giudici membri dei Comitati per i diritti sociali di Africa ed America, che si è svolto virtualmente il 30 novembre scorso, il professor Stefano Zamagni, economista e Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, cita il grande vescovo e teologo Basilio di Cesarea: “Nell’anno 370 il santo scrive un saggio dedicato al buon uso delle ricchezze che è ancora attuale. In quello scritto, Basilio afferma gli stessi concetti espressi dal Pontefice non solo in questa occasione ma varie volte nel suo magistero”.

E se il Pontefice nel suo messaggio sottolinea come “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata”, il presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali -e noto economista- ricorda che anche lo stesso Basilio, in fondo, aveva chiaro che non esiste solo un tipo di proprietà: “C’è quella privata, quella pubblica e quella comune. Il Codice di Giustiniano, del settimo secolo, già lo prevedeva”.

Ascolta l'intervista a Stefano Zamagni

Eppure noi contemporanei pensiamo che la sola proprietà sia quella privata, giusto?

R.- Sì, ma chi l’ha detto che sia così? Non lo è mai stato. La nostra costituzione italiana, con l’articolo 42, parla di proprietà pubblica e privata. Poi, nell’articolo 43, aggiunge: c’è anche la proprietà comune. Il Papa vuol far capire che se oggi esistono sacche di povertà, ciò è dovuto al fatto che la logica della proprietà privata, da sola, non arriva a soddisfare le esigenze di benessere di tutti, soprattutto dei poveri, degli scartati. Questo non vuol dire che il Papa sia contro la proprietà privata ma dice: la proprietà privata non basta. Bisogna renderla compatibile con forme di proprietà pubblica ma, soprattutto, con forme di proprietà comune.

Di tutto ciò la scienza economica di oggi ne è consapevole?

R.- Ci sono saggi economisti che sanno cosa sono i beni comuni i quali non possono essere gestiti né con criteri privatistici né con criteri pubblicistici: occorrono, invece, criteri comunitari. Ecco il punto fondamentale di questo pontificato: parte dal concetto di struttura di peccato, introdotto per la prima volta nella Dottrina Sociale della Chiesa da San Giovanni Paolo II. Nell’enciclica Sollicitudo Rei Socialis, Papa Wojtyla, raccogliendo un’intuizione di Paolo VI autore della Populorm Progressio, sostiene che non esistono solo i peccati individuali ma ci sono anche quelli dovuti a delle strutture economiche e sociali che tendono a produrre emarginazione e povertà. Se ci sono i poveri è anche colpa delle regole del gioco economico e finanziario che impediscono ad ampie categorie di persone l’accesso ai beni.

Ed è a questo punto che si generano le diseguaglianze che negano di fatto la giustizia sociale come ha detto il Papa nel suo messaggio?

R.- Certo, è evidente: è la logica conseguenza. Dagli ultimi quarant’anni, tutti gli indicatori registrano un incremento mai visto delle diseguaglianze, percentuale mai avuta nelle epoche precedenti. La globalizzazione e la rivoluzione digitale le fanno aumentare vertiginosamente: per invertire la tendenza bisogna cambiare le regole del gioco imposte da quelle strutture di peccato delle quali parlava Giovanni Paolo II.

Sarebbe utile chiudere i paradisi fiscali, come il Papa ha chiesto?

R.- Sì. I paradisi fiscali non esistevano fino a 38 anni fa, pur essendo nel pieno dell’economia di mercato. Creandoli, il numero delle diseguaglianze si è impennato. La ricchezza di chi li utilizza aumenta sottraendo agli Stati un gettito fiscale che sarebbe utile per tutta la collettività.

Il Papa, in questo discorso, spiega anche che, se restituiamo ai poveri ciò che per loro è indispensabile, non stiamo restituendo cose nostre ma ciò che in fondo gli spetta. Come mai si fatica a comprendere un concetto così semplice?

R.- Noi dobbiamo operare in maniera tale che un povero non resti più tale: dobbiamo portarlo via da quella che, tecnicamente, si chiama la trappola della povertà. Per farlo, bisogna inserirlo in processi virtuosi che passano anche attraverso la formazione e l’educazione. Questa, oggi, è una delle più grandi sfide.

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04 dicembre 2020, 08:00