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A Quito, la consegna dei respiratori donati dal Papa all'Ecuador (Credits: José Colmenarez) A Quito, la consegna dei respiratori donati dal Papa all'Ecuador (Credits: José Colmenarez)

Ecuador: consegnati e subito impiegati i respiratori donati dal Papa

Giunti ad inizio settimana, i due macchinari destinati all’ospedale "Eugenio Espejo" di Quito sono stati consegnati dal nunzio apostolico al ministro della Salute Pubblica. Un gesto, quello di Francesco, percepito come “un balsamo” dalla popolazione, dice a Vatican News l’arcivescovo Andrés Carrascosa Coso

Giada Aquilino - Città del Vaticano

Un gesto che cerca di aprire gli occhi di tutti, per essere più attenti ai bisogni dell’altro, “alla mano che chiede”. Così il nunzio apostolico a Quito, monsignor Andrés Carrascosa Coso, legge la decisione del Papa di donare due respiratori all’Ecuador per contrastare la pandemia da coronavirus, che nel Paese sudamericano ha fatto già registrare più di 53 mila casi e oltre 4.300 morti.

La situazione a Quito

I macchinari sono arrivati questa settimana, per essere destinati dalle autorità locali all’ospedale "Eugenio Espejo" di Quito. A consegnarli personalmente al ministro della Salute Pubblica, Juan Carlos Zevallos, è stato lo stesso arcivescovo Carrascosa Coso che a Vatican News racconta come ora l’emergenza Covid-19 si sia estesa dall’epicentro iniziale, nella zona di Guayaquil, capoluogo della provincia di Guayas sull'Oceano Pacifico, anche a Quito.

L'intervista all'arcivescovo Carrascosa Coso

R. - I due respiratori sono arrivati lunedì sera. Avevo già parlato col ministro della Salute Pubblica, Juan Carlos Zevallos, a cui avevo chiesto dove fossero più necessari i macchinari: mi aveva spiegato come il punto più difficile in questo momento fosse Quito, indicandomi in particolare l’ospedale "Eugenio Espejo" della capitale, che si trova in centro ed è un riferimento per la popolazione di tutto il Paese. Abbiamo quindi deciso di consegnare i due respiratori lì. E mercoledì mattina lo abbiamo fatto, alla presenza appunto del ministro della Salute Pubblica, del vice ministro degli Esteri, Cristian Espinosa, della direttrice dell'ospedale stesso, Mercedes Almagro. 

È stato un momento molto sentito. Ovviamente si tratta di ‘una goccia nel mare’, però i due macchinari sono stati accolti con grande gioia, perché si è capito il gesto paterno e di attenzione da parte del Papa per questo Paese che soffre una situazione molto delicata.

Quale significato assume il dono del Papa all’Ecuador in un momento così difficile per l'emergenza coronavirus?

R. - Per l’Ecuador è un balsamo, un gesto di affetto. Il Papa me l'ha detto personalmente: questo è un Paese che ama, un po' anche per la sua storia, quando era provinciale dei Gesuiti e si accordò col provinciale dell’Ecuador per uno scambio di studenti nel percorso di formazione. Da allora ha seguito molto questo Paese e la sua Chiesa. Ma possiamo leggere i gesti del Pontefice anche in un'altra maniera, più universale: questi gesti che il Papa sta compiendo in tante situazioni stanno cercando di aprire gli occhi a tutti noi, per essere più attenti ai bisogni di chi ci sta vicino, alla mano che chiede.

Come verranno utilizzati i due macchinari donati dal Papa al Paese che ha visitato nel 2015?

R. - Sono stati impiegati subito, mi hanno detto, per ampliare i reparti di cure intensive, perché in questo momento qui a Quito siamo non al collasso ma al limite. Il ministro ha usato l’espressione: “ogni macchina è vita, e non una sola”! E questo è vero, è in tal senso che assume tutta la sua importanza il gesto della donazione. Ogni macchina di queste è vita! E anche la direttrice dell’ospedale mi ha confermato l’immediato impiego dei due ventilatori, che è estremamente necessario.

Qual è la situazione in Ecuador in questo momento dal punto di vista della pandemia, anche pensando al resto del Sud America?

R. - In termini assoluti, per l'Ecuador che era partito con grandi numeri, superiori anche a quelli dei Paesi vicini, la situazione è cambiata. Ci sono molti Paesi che hanno superato l'Ecuador per il numero di casi, come il Brasile, di cui si parla molto, ma anche in Perù la situazione è drammatica e pure in Colombia. Ma in Ecuador ci sono delle differenze enormi. 

A Guayaquil per più di 30 giorni non ci sono state vittime per coronavirus: soprattutto se si pensa a quello che ha vissuto la città, sembra un miracolo. A Quito l’emergenza è arrivata più tardi: adesso c'è un picco, però mi diceva il ministro che il numero dei morti non è così alto com’è stato a Guayaquil. In un certo senso l’essere stati chiusi in casa ha fatto sì che adesso stia aumentando il numero dei casi ma in proporzioni che non raggiungono i numeri di Guayaquil, dove la pandemia è esplosa tutta in un colpo.

Lei in aprile aveva sottolineato a Vatican News l’emergenza in particolare per quelle persone che vivono di espedienti, vivono alla giornata…

R. - Questa è una delle cause del peggioramento della situazione a Quito. In alcune di queste grandi città il 40, anche il 50% dell'economia è informale. Le persone hanno resistito alcune settimane in casa ma poi hanno cominciato ad uscire perché dovevano trovare qualcosa da mangiare per i figli. Allora questo uscire senza le necessarie precauzioni, perché se una persona non ha da mangiare difficilmente ha la possibilità di acquistare una mascherina per ogni membro della propria famiglia, sta secondo me alla base anche del numero alto di casi che si sta avendo in capitale.

Parlando con la gente, che paure ci sono?

R. - La paura più grande è che si arrivi a un numero di malati così alto che gli ospedali non riescano a gestire. 

La questione è capire, un po’ in tutti i Paesi, quanto sia importante la prevenzione, cioè vivere con saggezza, con responsabilità, prendendosi cura - come evidenzia il Papa - gli uni degli altri, perché l'infezione di uno può essere la morte per esempio dell'anziano che vive a casa con lui.

Le chiese sono aperte ai fedeli in questo momento?

R. - In Ecuador è stato fatto un protocollo per la riapertura progressiva e sono state previste tre fasi. Per far ripartire l’economia del Paese, il governo centrale ha stabilito che la decisione venga presa da ogni sindaco, in base alle condizioni del proprio municipio. È stata creata una sorta di semaforo: se rosso, la chiesa si può aprire ma le persone vi possono rimanere per un massimo di 15 minuti per pregare o confessarsi; se giallo, si possono tenere piccole celebrazioni della Parola, rapide, con la distribuzione della Comunione; col semaforo verde è possibile celebrare le Messe. In questo momento quasi tutto il Paese è nella fascia gialla, con alcuni municipi ancora in rosso e altri già in verde.

Qual è lo sguardo della Chiesa sull'intero Paese adesso, anche secondo le raccomandazioni di Papa Francesco?

R. - È di grande attenzione alla persona, alla realtà di ogni singola situazione, di ciascuna parrocchia, esaminando ogni caso con i sacerdoti che sono sul campo e con i laici, che stanno avendo un'importanza enorme: penso ai laici, ai volontari che aiutano per esempio ad aprire le chiese, ad offrire anche tutti gli apparati e i kit di sicurezza contro il coronavirus.

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26 giugno 2020, 10:09