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La storia

I bambini speciali di suor Maria, in una Betlemme isolata per il coronavirus

A Betlemme, dove per l’emergenza Covid-19 si perdono posti di lavoro e risparmi e cresce la povertà, c’è un luogo con le porte “sempre aperte, di giorno e di notte, per qualsiasi piccolo che abbia bisogno di essere accolto”: è la Crèche della Santa Famiglia, l’istituto delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli che da oltre un secolo ospita minori abbandonati e in situazioni di disagio sociale. Intervista con suor Maria Mastinu

Giada Aquilino - Città del Vaticano

“Sono venuti al mondo né amati né desiderati” ma lì dove oltre duemila anni fa nacque Gesù hanno trovato il “calore” e la “tenerezza” di cui hanno bisogno. Sono i bambini della Crèche della Santa Famiglia di Betlemme, l’istituto delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli che da oltre un secolo ospita minori abbandonati e in situazioni di disagio sociale e di difficoltà. A Vatican News ne parla suor Maria Mastinu, religiosa sarda da 18 anni alla Crèche, dopo un trentennio trascorso come infermiera nella foresta equatoriale del Congo ex Zaire.

L’ accoglienza dei bambini

Con altre tre consorelle, due libanesi e una ceca, suor Maria si occupa attualmente di 48 bambini che vivono nella struttura, perché la scuola materna della Crèche è al momento chiusa per l’emergenza coronavirus e gli altri 65 che la frequentavano - dalle 7.30 alle 16.00 - sono a casa. Si vive, dice, senza “aiuti esterni”, secondo la “provvidenza”, aiutandosi con l’attività della Guest House che in tempi cosiddetti normali le stesse suore portano avanti. E con una certezza: “da noi - assicura - le porte sono sempre aperte, di giorno e di notte, per qualsiasi piccolo che abbia bisogno di essere accolto”.

La pandemia e la povertà

Suor Maria racconta dell’estrema povertà che si affronta a Betlemme, città che “vive e dipende dal turismo”. Le conseguenze del Covid-19, che nei Territori Palestinesi ha fatto registrare ufficialmente finora oltre 500 contagi e 4 vittime, si traducono di fatto in “una povertà che fa tristezza”, dice la religiosa originaria di Milis: “la gente ha perso il lavoro”, sono in molti ad essere stati licenziati “perché hanno chiuso gli alberghi”. Eppure la gioia di questa suora quasi ottantenne sta nei disegni dei suoi bambini, per fortuna - riferisce - colorati di chiaro, a indicare “una prospettiva aperta”, lontana dalla “gravità del momento”.

L'intervista a suor Maria Mastinu

R. - Tra la gente ci sono paura e preoccupazione per la virulenza di questa malattia, perché qui la situazione è ben diversa rispetto ad altri luoghi, non si è preparati e mancano le strutture adatte per affrontare una pandemia. Per questo le autorità da subito, ad inizio marzo, hanno dato l'annuncio del coprifuoco e decretato la chiusura delle vie di comunicazione per evitare l’entrata e l'uscita delle persone. Sono stati chiusi scuole e università, ma anche il mercato e gli alberghi. Quindi la gente si è ritrovata isolata, senza poter uscire di casa.

Parliamo di una città già stremata, così vicina a Gerusalemme eppure così lontana, per il muro di separazione, i check point, i controlli. Cosa serve e cosa significa essere “isolati” in questo momento?

R. - Prima di tutto c’è l’aspetto economico, per la sicurezza e l’avvenire di questa gente. Betlemme è una città turistica, vive e dipende dal turismo, quindi ci si trova in una povertà che fa tristezza. La gente ha perso il lavoro: molti sono stati licenziati perché hanno chiuso gli alberghi. E questo genera anche aggressività all’interno delle famiglie e disordini. Adesso siamo nel Ramadan, che ordinariamente è un periodo di festa per i musulmani, quando si ritrovano insieme la sera. Ma adesso non possono fare quello che facevano prima, non hanno più mezzi: conservavano qualche soldo proprio per la festa del Ramadan e invece c’è solo povertà. È vero che dappertutto c’è crisi economica ma qui si sente in modo ancora più particolare, data la situazione. 

C’è però un aspetto molto positivo, che commuove: nonostante la povertà ci sono tante iniziative di solidarietà e condivisione, tra le famiglie, tra le Chiese, latine e ortodosse. Tutti si sono sentiti impegnati per venire incontro, in questa situazione di pandemia, di grande bisogno della gente, con la distribuzione di alimenti, farmaci oppure mascherine e guanti per quanti sono stati colpiti dal virus e andavano isolati. Per fortuna, non abbiamo avuto tanti casi in città.

Come vivono in questo momento i bambini della Crèche?

R. - I nostri piccoli naturalmente si sono accorti del cambiamento perché prima venivano dall’esterno altri bambini qui a scuola e poi non è più successo. Ovviamente si pongono domande tra loro, noi abbiamo bambini che non sono molto grandi, hanno al massimo 5 anni. Sono comunque molto impegnati, con le insegnanti che li coinvolgono di continuo. Hanno percepito che c’era qualcosa di diverso, ma cerchiamo di vivere una vita normale, il Signore ci ha protetti.

Sono bambini giunti da voi già in condizioni di difficoltà. Che storie hanno alle spalle?

R. - Sono perlopiù bambini abbandonati. Qui una ragazza incinta prima del matrimonio rischia di essere ammazzata. Molte di loro, di nascosto, si rivolgono ad un istituto della zona appositamente creato per proteggere le ragazze in difficoltà. Noi le facciamo seguire da una psicologa e da un medico ginecologo dell’ospedale della Santa Famiglia, che è una struttura delle Figlie della Carità gestito ormai da tanti anni dall’Ordine di Malta. Qui alla Crèche abbiamo anche bambini con casi sociali particolari, che ci vengono affidati dalla polizia o dai servizi sociali palestinesi: bambini di strada, con situazioni familiari difficili. Da noi le porte sono sempre aperte, di giorno e di notte, per qualsiasi piccolo che abbia bisogno di essere accolto.

Tra le attività che avete organizzato, i bambini hanno fatto qualche disegno particolare?

R. - Adesso fanno molti disegni e costruzioni. Un aspetto positivo è dato dai colori di questi disegni, sono chiari, indicano cioè una prospettiva aperta. Quando un bambino è in crisi notiamo che fa ordinariamente disegni scuri, neri. E invece in questo periodo non sta succedendo: vuol dire che non si sono accorti della gravità del momento. I nostri sono dei bambini speciali: sono venuti al mondo né amati né desiderati. Quando prendiamo un neonato in braccio, si attacca a noi perché ha bisogno di sentire quel calore e quella tenerezza di una mamma che non potrà mai conoscere. Sono bambini spesso frustrati ed esprimono la loro condizione attraverso l’aggressività nei comportamenti. E quando sono in crisi può succedere che disegnino coi colori scuri, col nero. In quel caso facciamo intervenire la psicologa, che cerca di far emergere ciò che hanno dentro.

Qual è la sua speranza per Betlemme in questo momento di coronavirus?

R. - Mi auguro che si riprenda la situazione in mano al più presto, perché ci sono tante famiglie in condizioni peggiori della nostra, e che si apra una nuova era di speranza.

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10 maggio 2020, 08:56