La Basilica di San Pietro "senza popolo" durante la Messa per la domenica delle Palme La Basilica di San Pietro "senza popolo" durante la Messa per la domenica delle Palme 

Pasqua senza popolo, Repole: santificare la festa oltre il precetto

Il teologo don Roberto Repole invita a santificare il tempo pasquale nonostante l’obbligo di celebrazioni senza popolo imposto per la pandemia di coronavirus. “Nello strazio per l’assenza dell’Eucaristia riscopriamo un nuovo volto di Dio e la comunione tra i fratelli”

Fabio Colagrande - Città del Vaticano

“Dobbiamo accettare che ci troviamo in una situazione anormale, straordinaria e quindi non possiamo applicare i criteri lettura che usiamo normalmente. Lo stiamo facendo per quello che riguarda la vita sociale, civile. Non è normale aver paura gli uni degli altri, doversi astenere dagli abbracci, doversi astenere dalla vita sociale che ci forma, ci struttura, ci rende ciò che siamo. Così come non è normale evidentemente per noi cristiani non poter partecipare all'Eucaristia e non poter celebrare la Pasqua”. Don Roberto Repole, teologo sistematico, direttore della facoltà teologica di Torino, riflette sulle conseguenze della pandemia di coronavirus che ha spinto le autorità ecclesiastiche a vietare le celebrazioni religiose e poi a far celebrare la Settimana Santa e la Pasqua “senza il concorso di popolo”. “Sarebbe stranissimo se noi cristiani non sentissimo la sofferenza, lo strazio di questa mancanza. Ma questo non toglie che è ciò che ci è chiesto in questo momento per aderire alla realtà” “Forse – spiega il teologo – da questa mancanza straziante, che dovrebbe essere di tutti, possiamo cogliere l'opportunità per riscoprire qualcosa di profondo e fondamentale. Ciò verso cui questi sacramenti ci orientano e ciò che ci rendono disponibili: la presenza del Signore e la comunione tra noi fratelli”.

Ascolta l'intervista al teologo don Roberto Repole

Don Repole, un sacerdote che in questo periodo continuasse a incontrare le persone non compierebbe un atto di coraggio?

R.- Credo di no. Non si tratta di coraggio se questo coraggio non ha con sé la certezza che ciò che tu fai è veramente per il bene dell'altro e non per la sua distruzione. Mi sembrerebbe un atto un po' sconsiderato che non tiene conto del pericolo che in questo momento c’è nell'incontrare gli altri: cioè addirittura di portare la morte.

Forse abbiamo un'idea un po' soprannaturalistica della salvezza, che ha poco a che fare con la concretezza della nostra vita?

R. - Penso di sì. E in questo senso forse quello che stiamo vivendo è un'opportunità per cogliere davvero che cosa significhi che il Dio con cui abbiamo a che fare ha preso fino in fondo la nostra carne. È una carne che in questo momento può essere malata e dunque anche i sacramenti sono gesti che hanno che fare con questa carne malata. Dobbiamo riconoscere che abbiamo che fare con un’umanità che è infettata e che quindi potrebbe rendere quei gesti qualcosa di diverso da ciò che sono, cioè portatori di salvezza. Non possiamo pensare a un Dio che porti la salvezza mentre porta la malattia.

In questa particolare Settimana Santa cosa significa aprire il cuore Gesù, credere nella Resurrezione?

R. - Io penso che possa significare sfatare il mito culturale assai diffuso che siamo onnipotenti, non siamo fragili, siamo padroni di tutto. Sarebbe molto bello vivere questa Settimana Santa riconoscendo di nuovo che siamo delle creature bisognose di una salvezza che ci viene da altrove e che viene da un incontro personale. Credo che aprire il cuore possa significare anche scoprire un volto inedito, ancora diverso da quello che abbiamo conosciuto di nostro Signore. Qualche volta ho l'impressione che nei discorsi che ci facciamo in questi giorni si parli di Dio come se fosse una cosa. Con un valore ancora minore di quello che attribuiamo a noi persone umane. Dio è veramente qualcuno che conosciamo ma lo conosciamo come una verità inesauribile che non abbiamo mai finito di gustare, di sperimentare, di apprezzare nella sua bellezza infinita. Credo che sarebbe bello aprire il cuore in questo senso. Chissà che Dio non si faccia conoscere a noi, nell'interiorità nella vita di ciascuno, con un volto che non avremmo neanche pensato in altre pasque.

Dobbiamo riscoprire che la festa non si riduce al precetto domenicale?

R. - Credo che anche le fatiche che facciamo in questo in questo momento qualche volta possano dipendere dall’aver ridotto la celebrazione della festa semplicemente al precetto. Credo che nessun cristiano autentico non senta oggi la mancanza straziante dell'Eucaristia domenicale, tanto più delle celebrazioni della Pasqua. Ma questo non significa che non possiamo celebrare la Pasqua, tanto meno che non dobbiamo celebrare la Pasqua. Lo possiamo fare con quei gesti che ci sono a disposizione nell'assenza della liturgia: la preghiera, il silenzio, la liturgia delle ore, momenti di preghiera nelle nostre famiglie. Il tutto nella certezza che santificare il tempo è riconoscere che la mia vita viene da Dio. Santificare il tempo e fare festa è qualcosa di più grande che semplicemente rispettare un precetto. Se c'è un precetto nella Chiesa che giustamente ci invita a celebrare l'Eucaristia tutte le domeniche è qualcosa che dobbiamo inserire in una dimensione più profonda: c'è un tempo che è di Dio e dà senso a tutto il resto del tempo. Anche questa è un’opportunità che ci viene data: riscoprire che l’Eucaristia domenicale non esaurisce la celebrazione della festa.

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07 aprile 2020, 16:59