1585931558017.jpg

Fra Piergiacomo, angelo col saio: "In ospedale per curare anime"

Il frate cappuccino, insieme a quattro suoi confratelli, non smette di percorrere i reparti per regalare speranza ai malati e al personale medico ed infermieristico. “Preghiamo e portiamo l’unzione degli infermi. Non manchiamo mai di benedire le salme nella camera mortuaria. E’ un gesto d’amore”

Federico Piana- Città del Vaticano

Nell’ospedale ‘Papa Giovanni XXIII’ di Bergamo, gli angeli hanno il volto dei medici, degli infermieri e dei frati cappuccini che ogni giorno portano sollievo e speranza ai malati di coronavirus mettendo a rischio la propria vita. Fra’ Piergiacomo è uno di loro e, insieme ai suoi quattro confratelli, gira in tutti i reparti per regalare una parola di conforto, una preghiera: “Non lo facciamo solo con i malati ma con tutti gli impiegati della struttura: dagli infermieri al personale delle pulizie. La nostra presenza vuole davvero essere una vicinanza orante”.

Ascola l'intervista a fra' Piergiacomo

Molto spesso sono proprio i sanitari che vi cercano, è vero?

R.- Sì. A volte sono proprio le caposala che ci chiamano per andare dai loro colleghi: così ci ritroviamo insieme qualche minuto per recitare un Ave Maria o un Padre Nostro. In questo periodo di pandemia, purtroppo, possiamo accedere poche volte alle terapie intensive e ai reparti che ospitano contagiati a causa della scarsità dei dispositivi di protezione. Però siamo sempre pronti per le urgenze: portare l’olio santo ai moribondi.

Non mancate mai neanche dalla camera mortuaria dove nessun familiare delle vittime può andare per l’ultimo saluto…

R.- C’è sempre un frate che tutti i giorni offre una preghiera e una benedizione alle salme che transitano da lì. E se non ci sono i congiunti a piangere i propri cari defunti, spesso lo fanno i medici e gli infermieri: ne ho visti molti struggersi dal dolore, gli stessi che hanno accompagnato alla morte chi non ce l’ha fatta a resistere alla pandemia.

Come reagiscono i malati ai quali portare sollievo?

R.- Prima di tutto c’è un po’ di stupore, perché dopo molti giorni di ricovero vedono una persona che non è né medico né infermiere. Sono contenti quando scoprono che sotto il camice e dietro la mascherina si cela un religioso, li vedo anche un po’ risollevati e capiscono che la nostra presenza rappresenta il fatto che Dio è con loro ed è vicino alla loro sofferenza come il buon samaritano. Quando posso gli chiedo anche la possibilità di conferirgli l’unzione degli infermi, che rappresenta una consolazione nel momento della prova.

Qualcuno riesce a fare anche la confessione?

R.- No, perché manca la riservatezza. Di solito diciamo loro di fare un atto di profonda contrizione e una preghiera di pentimento col proposito, quando l’emergenza sarà terminata, di andare a confessarsi da un sacerdote. Speriamo accada presto.

 

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

06 aprile 2020, 08:00