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"Fonti di speranza": storie di donne musulmane e cristiane, unite contro la tratta

Presentato in anteprima assoluta il documentario “Wells of Hope”, sul nuovo progetto della rete Talitha Kum per la lotta alla tratta di persone in Siria, Giordania e Libano, che unisce religiose e donne cattoliche con donne musulmane e druse. La regista Lia Beltrami: vogliamo parlare ai giovani e alle giovani arabe, prime vittime della piaga

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Ciak: sole, deserto, una strada polverosa, un tassista giordano curioso e una regista di documentari italiana. “Sono qui per raccontare la storia di donne arabe forti – spiega la regista al tassista - impegnate in un progetto contro il traffico umano”. Inizia così il documentario Wells of Hope (Fonti di speranza), prodotto da Aurora Vision con la regia di Lia Giovanazzi Beltrami, presentato in anteprima assoluta a Roma, nella Sala Marconi di Palazzo Pio.

Un progetto della rete "Talitha Kum", nata 10 anni fa dall'Uisg

Un video di 30 minuti che racconta le attività della rete contro la tratta Talitha Kum, un’iniziativa dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) nel bacino del Mediterraneo, dove il fenomeno è in aumento e dove il nuovo progetto Wells of Hope punta ad intensificare gli sforzi per prevenire, proteggere e fornire assistenza alle vittime.

Padre Baggio: così si vince l'ignoranza sulla tratta 

All’anteprima interviene padre Fabio Baggio, sottosegretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che ricorda come la sua sezione ha dedicato tutto il 2018 alla piaga del traffico di esseri umani. Talitha Kum, che il 28 febbraio festeggia 10 anni, sottolinea padre Baggio, “è l’espressione più chiara della Chiesa cattolica sulle frontiere della tratta”. La conferenza internazionale organizzata nell’aprile 2018, aggiunge il religioso scalabriniano, ha concluso che l’ignoranza del fenomeno “si vince solo con la presentazione dello stesso, come fa Wells of Hope, attraverso le voci di chi è sopravvissuto e si è messo poi al servizio delle nuove vittime”.

Guarda il trailer di "Wells of Hope - Fonti di Speranza"

Suor Naddaf: un'equipe di donne consacrate all'umanità

Protagonista della presentazione suor Marie Claude Naddaf, coordinatrice di Wells of Hope, che definisce il progetto “un’equipe di donne consacrate all’umanità, cristiane e musulmane insieme, che tendono la mano alle più vulnerabili, per far risorgere la vita che talvolta la sofferenza blocca”. Accanto a lei due donne laiche, Esra’a Ali Salameh Alsheyab, musulmana, e Wafa Aqeel Saleem Almakhamreh, cristiana, animatrici di Wells of Hope in Giordania. “La religione – dice Esra’a – è una porta di pace e di carità. Attraverso l’opera di Wells of Hope vogliamo parlare di pace anche nell’Islam”.

Suor Bottani: "Wells of Hope" incontro tra le diversità

Nei giorni dell’incontro di tutti i vescovi e i patriarchi delle Chiese orientali dei Paesi affacciati sul Mediterraneo, organizzato a Bari dalla Conferenza episcopale italiana, suor Gabriella Bottani, coordinatrice di Talitha Kum, spiega che “Il Bacino del Mediterraneo è un luogo di incontro tra le diverse culture e religioni. Siamo convinte che l’incontro tra le diversità e le relazioni di fiducia sono la base per seminare gesti concreti di speranza per tante donne, bambini e uomini trafficati e sfruttati in questa regione”. Così suor Bottani parla di Wells of Hope a Vatican News.

Ascolta l'intervista a suor Gabriella Bottani

R. - Una delle richieste che ci è arrivata come Talitha Kum dalla base è stata di creare reti nella regione del bacino del Mediterraneo: per questo è nata Wells of hope, Fonti di speranza.  Suor Marie Claude Naddaf, delle Suore del Buon Pastore, ha preso la leadership della rete, che è nata dall'incontro tra donne di diverse culture e di diverse religioni. Ci sono donne musulmane, sciite e sunnite, donne druse e alawite, e ci sono cristiane cattoliche e ortodosse, e questa è la grande novità di Wells of hope.

Suor Bottani: il racconto della storia di Shaima

Può un documentario educare a non assuefarsi alla “banalità del male” della tratta?

R. - Credo che questo documentario abbia una forza particolare: quella della narrazione delle storie. Una delle donne che fa parte appunto della rete in Libano, Nassim Alwan, è un'attrice che di professione racconta le storie ai bambini e lavora in una biblioteca, per cui recupera proprio questa dinamica del racconto che parte dalla realtà. E’ un documentario che ci porta ad entrare in modo rispettoso di una cultura e dentro il dolore della tratta, senza dover esporre i protagonisti e le protagoniste che hanno sofferto in prima persona. Ma senza togliere l'impatto anche emozionale che il dolore di chi ha sofferto la tratta può portare. Il documentario è in italiano, inglese ma soprattutto in lingua araba e non avevamo nulla in arabo, finora.

Suor Gabriella Bottani (seconda da sinistra) alla presentazione del documentario
Suor Gabriella Bottani (seconda da sinistra) alla presentazione del documentario

Sono “storie di donne arabe forti”, spiega la regista, ma sono storie anche di speranza?

R. -  La speranza viene dall’incontro. Più vado avanti e più mi rendo conto che il primo passo per contrastare la tratta e quello di costruire reti, di unire le forze, di perdere del tempo per costruire relazioni di fiducia, per creare delle basi dentro la società che possano veramente restituire ad ogni persona uno spazio dove la dignità possa diventare reale. Dove può essere costruita con gesti di solidarietà e questo lo possiamo fare solo insieme.

La tratta colpisce molto spesso le profughe e i profughi in fuga dalle guerre. Come proteggerli?

R. – La storia vera che viene narrata nel documentario, vede appunto come protagonista un adolescente siriana, Shaima, rifugiata in Libano. Il lavoro che noi portiamo avanti è quello della sensibilizzazione e della prevenzione. Informare e creare dinamiche di protezione, per le persone che vivono all'interno dei luoghi di vulnerabilità come i campi profughi o le regioni rurali dove le bambine, i bambini o le donne vengono reclutate. Si possono creare dei progetti e delle attività che portino a una maggiore tutela di queste persone.

Beltrami: in arabo per parlare ai giovani del Medio Oriente

Le storie narrate nel documentario di Lia Beltrami vogliono scuotere le coscienze, metterci a contatto con le ferite di una terra divenuta il crocevia di un “traffico disumano”, spaventoso scenario di reclutamento, rapimento, trasporto e trasferimento delle persone più vulnerabili, in particolare donne e bambini, intercettati anche da spietati trafficanti di organi. Lia Beltrami presenta così a Vatican News il suo lavoro.

Ascolta l'intervista a Lia Beltrami

R. - Un documentario crea sempre consapevolezza, dà coraggio alle persone che ci lavorano e tocca tante persone che magari rimanevano un po' distaccate. Conoscere e cominciare a porsi il problema è un punto fondamentale e inizia anche una denuncia. Speriamo che poi tanti giornalisti possano percorrere i solchi che abbiamo tracciato, per approfondire soprattutto il dramma della tratta per il traffico degli organi, quello della tratta di persone poi costrette alla prostituzione e quello delle bambine e dei bambini venduti per diventare aiuti domestici

Quali difficoltà avete avuto per la realizzazione del documentario?

R. - Realizzare questo documentario, in zone di conflitto nel mondo arabo, non è stato facile. Dovevamo partire per il Libano quando sono scoppiati primi disordini e ci siamo spostati in Giordania, fino al confine con la Siria. Abbiamo poi fatto la scelta di rispettare i volti delle donne e delle persone vittime di tratta e quindi abbiamo scelto che fossero le donne protagoniste della reazione alla tratta a raccontare le storie, usando immagini molto simboliche, realizzate in tutti i luoghi dove purtroppo queste ragazze sono state portate via.

Una scena del documentario, girato in Giordania
Una scena del documentario, girato in Giordania

Il documentario sarà diffuso anche nelle zone dove inizia il traffico?

R. - Lo abbiamo realizzato in lingua araba e con un linguaggio che possa essere diffuso anche in rete, perché abbiamo visto come per la tratta oggi il primo aggancio avviene molto spesso attraverso i social network. Quindi abbiamo cercato parlare ai giovani, anche con i ragazzi delle scuole, a partire dal mondo arabo, ma poi in tutto il mondo. La particolarità di Wells of Hope è che unisce donne di diverse religioni: è il primo progetto che porta avanti Talitha Kum con donne cristiane, musulmane e druse. Dove si cerca di usare le religioni per dividere, ecco che le donne si uniscono per progetti molto concreti, poche parole e lo sguardo già in avanti.

Dal suo punto di vista, quali passi bisogna compiere ancora contro il fenomeno della tratta?

R. - Il progetto di Talitha Kum, questa rete che unisce tante esperienze contro la tratta, è la prima via. Facendo documentari, facendo serate, facendo incontri, si fa conoscere questa realtà, aiutano le religiose, le operatrici, le attiviste che poi salvano queste ragazze, portandole via dalla tratta. Un passaggio ulteriore è lavorare soprattutto con gli uomini, perché la tratta coinvolgere anche gli uomini ma soprattutto le ragazze. E sono gli uomini che devono prendere le redini di una rivoluzione culturale, per fare in modo che nessuna persona venga essere venduta o comprata, perché ogni essere umano racchiude in sé tutto il mondo.

In Nepal allo Human Rights International Film Festival

Dopo l'anteprima romana, Wells of Hope arriverà in Nepal. E’ stato scelto infatti per aprire il Nepal Human Rights International Film Festival, in programma dal 4 al 7 marzo.

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"Wells of Hope", un documentario contro il traffico di esseri umani
20 febbraio 2020, 16:25