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L'inaugurazione della casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII a Gerusalemme L'inaugurazione della casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII a Gerusalemme

Terra Santa: inaugurata casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII

Nell’intervista a Barbara Branchetti, della Comunità di don Benzi a Gerusalemme, l’impegno a favore dei bambini, figli di migranti. Nei piccoli gesti, nella cura ma anche nei silenzi passa l’amore per questi piccoli, racconta a Vatican News

Giada Aquilino - Città del Vaticano

Una nuova occasione di “accoglienza dei più poveri” nella terra di Gesù, “che dei poveri è stato amico”. Questa la prima casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII in Terra Santa, inaugurata ieri a Gerusalemme, nelle parole di Giovanni Paolo Ramonda, presidente della realtà fondata nel 1968 da don Oreste Benzi.

L’inaugurazione con l’arcivescovo Pizzaballa

Al taglio del nastro della struttura - in sperimentazione già dal febbraio scorso presso il vicariato di San Giacomo dei cattolici di lingua ebraica in Israele, che si occupa proprio della pastorale e della cura dei migranti - erano presenti l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, il vicario, padre Rafic Nahra, e l’ex vicario, padre David Neuhaus, che hanno fortemente voluto il progetto.

La missione con i bambini, figli di migranti

“Viviamo con cinque bambini, figli di genitori filippini che sono emigrati in Israele per cercare lavoro. Sono bambini con situazioni familiari difficili, con mamme che non riescono ad accudire i figli, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per qualche difficoltà proprio nella gestione” delle necessità di ogni giorno, spiega da Gerusalemme l’infermiera italiana Barbara Branchetti, “mamma” della casa famiglia ‘Guardian Angel House’ della Comunità Papa Giovanni XXIII. “Viviamo insieme a questi bambini esattamente come una famiglia, compiendo - racconta - gesti quotidiani, dall’alzarsi la mattina al fare colazione insieme e poi andare a scuola, dal pulire la casa al preparare il pranzo. Solitamente un giorno alla settimana i bambini rientrano a casa con la mamma, perché il padre spesso è assente o comunque non passa con loro molto tempo” (Ascolta l'intervista con Barbara Branchetti).

L’amore in un disegno

Negli occhi e nelle vite dei piccoli, una realtà difficile. “Sono bambini molto feriti, che non si fidano facilmente degli adulti: ci mettono alla prova, perché vogliono capire se veramente si vuol loro bene, se veramente si sceglie di rimanere a loro fianco”, dice Barbara Branchetti, trasmettendo un’emozione tutta particolare ma non nascondendo nemmeno le difficoltà di quest’esperienza. “E’ una relazione che si costruisce facendo capire che ogni giorno sei lì con loro, nonostante a volte ti mandino via, ripetendo che non sei la loro mamma e nonostante le grandissime difficoltà con la lingua, perché loro parlano tutti ebraico, essendo nati in Israele. Quindi ciò che passa in realtà è l’amore, nei gesti, nella pazienza, nella cura, nel tono della voce, nell’essere lì, anche nei silenzi”, spiega l’infermiera di Forlì. Quando le si chiede se ci sia stato proprio un segno che le abbia fatto capire come forse l’amore donato sia stato in qualche modo ricevuto, Barbara racconta di “una sera in cui i bambini si sono messi di nascosto a fare qualcosa: non capivo - confessa - cosa stessero facendo. Poi ad un certo punto mi hanno portato un disegno bellissimo, con un arcobaleno colorato al centro, delle nuvole, un bellissimo sole con degli occhiali da sole: c’era il mio nome in ebraico e la scritta “noi ti vogliamo bene”, sempre in lingua ebraica. Mi si è aperto il cuore. Questo gesto mi ha fatto capire che nonostante tutte le mie lacune, le mie mancanze, la mia inesperienza, il mio non essere ‘mamma biologica’ qualcosa è passato davvero”.

Il vicariato di San Giacomo

Alla commozione di Barbara, si affianca la determinazione, sua e della Comunità di don Benzi di cui fa parte. A Gerusalemme operiamo nell’ambito del “vicariato di San Giacomo: è una comunità che raccoglie un gruppo di cattolici di lingua ebraica. Inoltre è impegnata con la pastorale dei migranti, quindi accoglie tantissime comunità filippine, etiopi che si trovano a Gerusalemme. Le mamme - spiega - lavorano soprattutto come colf e badanti, tantissime ore al giorno, anche durante le feste ebraiche”.

L’umiltà del Vangelo

Un esempio dunque del “fare Chiesa” nella terra di Gesù, al fianco di una minoranza e di migranti provenienti da Paesi diversi. Ma anche in una regione, come quella mediorientale, che però tarda a trovare la pace. “Ogni giorno ciò che vivo - testimonia la Branchetti - è una lezione di umiltà. Il Signore tutti i giorni mi ricorda che non sono qui per salvare nessuno, mi ricorda che non ho alcun potere speciale, non ho niente di più rispetto agli altri, ma sono solamente un pezzettino di qualcosa di più grande. Ciò che mi piace fare è realizzare e vivere il Vangelo nel quotidiano e qui - conclude - lo si vive pienamente, anche nelle difficoltà”.

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29 settembre 2018, 13:13