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San Martino di Porres, religioso domenicano

San Martino di Porres, sec. XVII San Martino di Porres, sec. XVII 

Nel Perù del XVII secolo, sono tanti quelli che sbarcano nelle Indie senza prospettive di lavoro e senza soldi, con la speranza di trovare la fortuna che non arriverà mai, e finiscono in strada, azzuffandosi per un posto per dormire o per pochi spiccioli. Martino cresce a Malambo, un quartiere povero di Lima, insieme a spagnoli impoveriti e indios, ma anche schiavi neri, ammassati in recinti in attesa di essere venduti.

Martino è già frate nel suo convento, oppresso da una situazione economica difficile; sa che gli schiavi neri hanno una importante valutazione sul mercato perché sono richiesti come braccia da lavoro nelle piantagioni e nell’edilizia. Il priore del convento ha deciso di impegnare oggetti religiosi di valore per ottenere il denaro che serve, ma Martino gli propone di vendere lui – che è di “proprietà” del convento – per la somma di “almeno mille pesos”. Il priore rifiuta e, commosso, gli risponde: “Dio ti ricompensi, fratello Martino; sarà il Signore, che ti ha portato qui, a sistemare tutto”.

Avanti al suo tempo

Martino de Porres Velázquez era figlio del cavaliere spagnolo Juan de Porres, governatore di Guayaquil, e di Ana Velázquez, nera liberta panamense. Ovviamente, parlare di matrimonio è impensabile: il cavaliere vive con la liberta e riconoscerà il figlio solo molti anni dopo, pur occupandosi da sempre del suo sostentamento. E siccome è figlio illegittimo, non può accedere al convento dei domenicani di Lima come frate, ma soltanto come “donato”: ha diritto all’alloggio e in cambio fa le pulizie nel convento. A Malambo, però, il futuro “santo della scopa” ha acquisito i principi della medicina aborigena con l’uso delle piante curative e, soprattutto, il rapporto di fiducia che si instaura tra chi guarisce e chi vuole essere guarito. Martino mette la sua conoscenza a disposizione dei fratelli domenicani e di tutti i malati che arrivano al convento di Santa Maria del Rosario: sono sempre di più, perché la sua fama di “guaritore” si è diffusa in tutta Lima.

Un anonimo dell’epoca racconta che, durante un’epidemia di morbillo, “l’infermeria sembrava un manicomio: i malati gridavano, scendevano dal letto e si comportavano come persone fuori di senno. Chi mai avrebbe potuto gestire una situazione simile? Fra Martino, con la sua carità, riusciva a calmare chi dava in escandescenza, a somministrare le cure a tutti e riusciva a far mangiare e bere anche chi, nel momento della follia, si rifiutava”.

La semplicità, la disponibilità e la pazienza di Martino, dotato anche di un fine senso dell’umorismo, richiamano persone di ogni livello sociale, dal viceré del Perù fino al ciabattino, chi alla ricerca di aiuto spirituale, chi di aiuto materiale, di consigli, di cure. Gli si attribuisce anche il dono della bilocazione: si racconta che era nella sua cella, ma era anche al letto dei moribondi per consolarli; si dice anche che uscisse dal convento per assistere un malato rientrando senza che nessuno gli aprisse la porta - e senza averne la chiave. Quando gli chiedono come faccia, rispondeva ridendo: “Io ho i miei modi, per entrare e uscire”.

Potrebbe essere un medico eccezionale, avanti rispetto al suo tempo, perché comprende la complessità del dramma della malattia, specialmente nella gente umile: conosce le conseguenze fisiche e piscologiche della miseria e le privazioni. Ha una lista di persone che hanno subìto avversità e rovesci di fortuna, che ora sono così poveri da vergognarsi che si venga a sapere: li riceve di nascosto, dà loro cibo e abiti e opera nella speranza che “non si perdano”. Ai suoi pazienti si presenta chiedendo: “Di cosa avete bisogno, fratelli?”; e quando le persone che ha guarito lo ringraziano, si schermisce affermando: “Io ti guarisco, Dio ti salva”.

Avanti al suo tempo è anche suo rispetto per il creato, a partire dalle erbe che studia e coltiva con pazienza fino agli animali di cui – anomalia per i tempi – si prende cura. La sua capacità di dirimere le controversie dà origine alla leggenda secondo la quale riesce a far mangiare dalla stessa ciotola un cane, un gatto e un topo …

Fuori del convento, insegna la dottrina cristiana alle persone che vivono in strada: mendicanti, indios, schiavi e orfani; preoccupato per il loro stato di abbandono fonda, con l’aiuto finanziario di alcuni nobili, l’Asilo e la Scuola della Santa Croce, per dare loro istruzione e insegnare loro un mestiere.

Vive il voto di povertà fino agli estremi limiti. Nel convento organizza un guardaroba per i poveri che non hanno nemmeno di che vestire, mentre lui rammenda la sua tunica fino a quando cade a pezzi. Sua sorella Giovanna, visto l’abito tanto rovinato, gliene porta uno nuovo, ma Martino rifiuta con queste parole: “Secondo la nostra fede, non sfigurano panni poveri e rammendati, ma abitudini sporche e schifose”.

Martino della Carità

A volte, fra Martino porta feriti e i malati nella sua cella, e questo gli procura qualche problema tra le proteste degli altri frati. Quando i superiori vengono lo vengono a sapere, gli proibiscono di continuare a farlo. Ma qualche giorno dopo appena, un indio cade, pugnalato, davanti alla porta del convento. Martino lo porta nella sua cella per medicarlo e assisterlo. Il Provinciale rimprovera Martino severamente dicendogli tra le alte cose: “Non sono in collera con la persona, ma con il peccato. Fratello, chiedi perdono a Dio, che hai offeso”. Martino, pur nella sua umiltà, dice sempre quello che pensa: “Padre, io non ho peccato”. “Come puoi dire questo, se non hai rispettato le mie ordini?”. “E’ vero, padre; ma credo che di fronte alla carità non ci sia precetto che tenga, nemmeno l’obbedienza”. Muore il 3 novembre 1639 di febbre quartana.

Per lui suonano a morto tutte le campane della città dei Re

San Giovanni XXIII, che lo proclamò Patrono della Giustizia Sociale, nell’omelia della sua canonizzazione, il 6 maggio 1962, scriveva: “La dolcezza e la delicatezza della sua santità di vita arrivò a tanto che durante la sua vita e anche dopo la morte conquistò il cuore di tutti, anche di razze ed origini diversi. (…) Ha cercato di portare i peccatori sulla retta via con tutte le sue forze; assisteva pazientemente i malati; forniva cibo, vestiti e medicine ai deboli; prediligeva i contadini, i neri e i meticci che in quel tempo svolgevano i mestieri più bassi, tanto da essere chiamato dalla voce popolare “Martín de la Caridad”. Bisogna tenere conto che in questo ha seguito strade che possiamo certamente considerare nuove in quei tempi, e che possono considerarsi come in anticipo rispetto ai nostri giorni”.