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Sant'Óscar Arnulfo Romero

Come un fratello ferito da tanta morte, tu hai pianto, solo, nell’Orto

“Temo fortemente, miei cari fratelli e amici, che presto la Bibbia e il Vangelo non potranno più varcare i nostri confini. Tutto ciò che ci arriverà saranno le copertine, poiché tutte le pagine sono sovversive – sovversive contro il peccato, ovviamente! Ho paura che se Gesù fosse voluto entrare dalla frontiera, da Chalatenango, non l’avrebbero fatto entrare. Lo avrebbero accusato, Lui, l’Uomo-Dio, il prototipo dell’uomo, lo avrebbero accusato di essere un ribelle, un ebreo straniero, un irretitore con idee esotiche e strane […] Lo avrebbero crocifisso di nuovo”. (Beato Rutilio Grande, Sermone di Apopa, 13 febbraio 1977)
Venti giorni dopo aver pronunciato questa omelia, il 12 marzo 1977, padre Grande muore crivellato di colpi insieme a due contadini mentre torna dalla celebrazione della Messa. Fondatore delle Comunità di Base (CEB), il gesuita salvadoregno aveva denunciato la persecuzione e la repressione subìta dal suo popolo e dalla sua Chiesa in quegli anni. Era grande amico dell'arcivescovo Romero che lo veglia tutta la notte, per confessare successivamente: "Quella notte ho ricevuto una forza particolare dal Cielo", quella forza che lo spinge a prendere il posto che Grande lascia vacante: quello del buon pastore del Vangelo che difende il suo gregge.

E tu hai saputo bere il doppio calice, quello dell'altare e quello del popolo

Oscar Arnulfo Romero nasce nel 1917 a Ciudad Barrios (El Salvador). Di famiglia umile e secondo di otto fratelli, dopo la scuola frequenta una scuola professionale per diventare falegname; però, si accorge che più che falegname vuole essere sacerdote, e così a tredici anni entra nel Seminario minore claretiano di San Miguel e nel 1937 nel seminario di San José de la Montaña a San Salvador, gestito dai gesuiti. Quello stesso anno si trasferisce a Roma per studiare teologia alla Pontificia Università Gregoriana, e a Roma conosce monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI. Il giorno della sua ordinazione sacerdotale, il 4 aprile 1942, scrive nel suo diario: "Desidero essere un’ostia per la mia diocesi". Quasi una profezia di quello che sarà il suo destino.
Nel 1943, a causa della seconda guerra mondiale, torna in Salvador ed è nominato parroco, prima di Anamorós e poi di San Miguel. Nel 1968 è eletto segretario della Conferenza episcopale; due anni dopo, Paolo VI lo nomina vescovo ausiliare di San Salvador e, nel 1974, vescovo di Santiago de María. Nel 1977 è chiamato a succedere all'arcivescovo metropolita di San Salvador, Luis Chavez Gonzalez, fautore di una pastorale sociale molto intensa. La sua nomina suscita perplessità, poiché il carattere contemplativo di Romero non sembra il più adatto per affrontare la drammatica situazione di un Paese che in quel decennio sta vivendo una guerra civile che si combatte tra le forze armate e diversi gruppi di insorti a causa della mancanza di libertà, dell’enorme divario tra ricchi e poveri e del fatto che la terra è nelle mani di poche famiglie di latifondisti. Il timore è che di questa nomina possa soffrirne l'impegno dell'arcidiocesi nei confronti dei poveri.
Niente è più lontano dalla verità. Dopo l'assassinio di padre Rutilio Grande il nuovo arcivescovo, uomo pacifico ma non sottomesso, prende coscienza della sua responsabilità pubblica. Il suo annuncio del Vangelo è allo stesso tempo una denuncia della situazione in cui versa il suo gregge. Mons. Romero crea immediatamente una commissione per la difesa dei diritti umani e diventa così la voce dei senza voce. Chiede la riconciliazione accompagnata dalla giustizia ma non giustifica la violenza rivoluzionaria come risposta alla violenza istituzionale, e fa un forte appello per soluzioni negoziate. Del suo gregge fanno parte le madri degli scomparsi, i contadini, gli espropriati: “Con un gregge così – dice – non fa fatica essere un buon pastore". Le sue Messe sono sempre più affollate. A chi lo accusa di fare politica, risponde: "Quello che cerco non è la politica. Se succede che io porti una luce alla politica della mia patria è perché sono un pastore e parto dal Vangelo, che è la luce che deve illuminare le strade del Paese”.
Negli ultimi tre anni di vita, mons. Romero ha guidato l’arcidiocesi di San Salvador: questi anni sono l’apice della sua missione e il suo calvario. Gli omicidi di contadini, sacerdoti e catechisti aumentano, l'opzione preferenziale dell'arcivescovo per i poveri è considerata agitazione sociale: con una serie di attentati dinamitardi – dieci in un solo anno – vengono boicottate le sue omelie, trasmesse dalla radio diocesana. Mentre si stringe l'assedio intorno a lui, alcuni settori della gerarchia della Chiesa lo emarginano o addirittura lo abbandonano alla sua sorte.
Allo stesso tempo, però, la sua opera incomincia ad avere risonanza a livello internazionale, tanto che nel 1979 è candidato al Premio Nobel per la Pace e nel febbraio 1980 l'Università Cattolica di Lovanio gli conferisce il dottorato honoris causa per la sua difesa dei diritti umani. In quella sede Romero pronuncia il discorso che sarà considerato il suo testamento: "Esistono tra noi quanti vendono il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali (cfr. Am 2,6); quanti accumulano violenza e rapina nei loro palazzi (Am 3,10); quanti schiacciano i poveri (Am 4,1); quanti affrettano il sopravvento della violenza, sdraiati su letti di avorio (Am 6,3-4); quanti aggiungono casa a casa e annettono campo a campo, fino a occupare tutto lo spazio e restare da soli nel Paese (Is 5,8). [...] È, dunque, un fatto evidente che negli ultimi tre anni la nostra Chiesa è stata perseguitata. Ma è importante osservare il motivo per cui è stata perseguitata. Non sono stati perseguitati tutti i sacerdoti, non sono state attaccate tutte le istituzioni. È stata perseguitata e attaccata quella parte della Chiesa che si è schierata con la povera gente e che è venuta in loro difesa. E ancora ritroviamo qui la chiave per capire la persecuzione della Chiesa: i poveri".
Il 23 marzo 1980, Domenica delle Palme, pronuncia nella cattedrale di San Salvador l’omelia che è passata alla storia come "l'omelia di fuoco". Dopo una nuova ondata di assassinii che lascia 43 morti in una settimana, dall'altare lancia un appello agli uomini dell'esercito: "Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale non ha l’obbligo di essere osservata. È tempo di recuperare la vostra coscienza e di obbedire a questa piuttosto che all’ordine del peccato. […] In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente le cui grida salgono al cielo ogni giorno più tumultuose, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: fermate la repressione!".
Il giorno dopo, una decappottabile rossa si ferma davanti alla cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza, dove monsignor Romero sta celebrando la Messa. Dal finestrino posteriore spunta un fucile: i fedeli, rivolti all'altare, non lo vedono. "Che questo Corpo immolato e questo Sangue sacrificato per l'umanità ci nutra perché offriamo il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per noi stessi, ma per portare concetti di giustizia e pace al nostro popolo", dice alla fine della sua ultima omelia. Il colpo, secondo i presenti, sembra una bomba. Romero cade a terra con il cuore trafitto, mentre l'auto sfreccia via. Gli Squadroni della Morte avevano pagato 114 dollari il sicario che lo ha assassinato.

San Romero d'America, nostro pastore e martire

Nei terribili anni che seguono la sua morte, il ricordo del suo sacrificio riesce a dare un senso al dolore delle famiglie che hanno perso i figli nel conflitto. Il suo popolo lo proclama martire immediatamente e accorre a pregare sulla sua tomba nella cattedrale.
"La speranza di Romero poggiava su due pilastri: quello storico, che era la sua conoscenza del popolo al quale attribuiva una capacità di trovare soluzioni alle difficoltà più gravi, e quello trascendente, che era la sua persuasione che in definitiva Dio è un Dio di vita e non di morte, che la realtà ultima è il bene e non il male ... Con Romero, Dio è venuto in Salvador", affermava il gesuita Ignacio Ellacuría, lui stesso vittima nel 1989 della violenza che imperversa contro una Chiesa impegnata con gli ultimi.
Papa Francesco, dichiarandolo martire in odio alla fede, lo proclama beato nel febbraio 2015 dopo un lungo processo che, come ha ricordato il postulatore della sua causa, l'arcivescovo Vincenzo Paglia, "non è stato privo di difficoltà, sia per l'opposizione al pensiero e all'azione pastorale dell'arcivescovo sia per la situazione conflittuale che si era creata intorno alla sua figura". Romero è così il primo di un lungo elenco di nuovi martiri contemporanei, venerati anche dalla Chiesa anglicana.
Oscar Arnulfo Romero è stato beatificato a San Salvador il 23 maggio 2015; il 30 ottobre, ricevendo un gruppo di pellegrini venuti a ringraziare per la beatificazione, Papa Francesco dice: "Vorrei aggiungere qualcosa che forse ci è sfuggito. Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto — io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone — fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Cioè, è bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire. Ebbene, credo che ora quasi nessuno osi più farlo. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie".
Mons. Romero è stato canonizzato da Papa Francesco a Roma il 14 ottobre 2018.